All’inizio erano passati attraverso le terre abitate dagli Hobbit, una vasta e rispettabile contrada abitata da gente per bene, con strade buone, una o due locande e di quando in quando un Nano o un fattore in giro per affari. Poi arrivarono a terre dove la gente parlava in modo strano, e cantava canzoni che Bilbo non aveva mai sentito prima.
Cavalcavano da poco, quando arrivò Gandalf, veramente superbo su un cavallo bianco. Recava con sé molti fazzoletti, e la pipa e il tabacco di Bilbo. Dopo di ciò, dunque, la brigata andò avanti molto allegramente, ed essi raccontarono storie o cantarono canzoni tutto il giorno mentre cavalcavano, eccetto naturalmente quando si fermavano per i pasti.
Proprio allora tutti gli altri sbucarono da dietro l’angolo della strada proveniente dal villaggio. Montavano dei pony, e da entrambi i fianchi di ogni pony pendevano i bagagli più disparati: casse, pacchi ed effetti personali. C’era anche un pony piccolo piccolo, a quanto pareva destinato a Bilbo.…
«Hai solo dieci minuti di tempo. Ti toccherà correre» disse Gandalf.
«Ma…» disse Bilbo.
«Non c’è tempo» disse lo stregone.
«Ma…» disse ancora Bilbo.
«Non c’è tempo neanche per questo! Sbrigati!».
Fino alla fine dei suoi giorni Bilbo non riuscì mai a ricordare come fece a trovarsi fuori casa, senza cappello, bastone, un po’ di denaro, o una qualsiasi di quelle cose che di solito portava con sé quando usciva, lasciando a metà la sua seconda colazione e senza sparecchiare, ficcando le chiavi in mano a Gandalf e correndo alla massima velocità consentitagli dai piedi lanosi giù per il viottolo, oltre il grande Mulino, al di là dell’Acqua e poi per un miglio e più.
«Vecchio mio,» egli disse «ma quando ti decidi a venire? E la partenza di buon’ora dov’è finita? Eccoti qui a fare colazione, o come la vuoi chiamare, alle dieci e mezzo! Ti hanno lasciato quel messaggio perché non potevano aspettare».
«Che messaggio?»
Bilbo saltò su, e mettendosi la vestaglia andò in sala da pranzo. Non ci trovò nessuno, ma ben visibili erano i segni di una colazione abbondante e frettolosa. C’era un disordine spaventoso nella stanza, e pile di vasellame da lavare in cucina.
Dopo che tutti gli altri ebbero ordinato la loro colazione senza dire neanche una volta «per piacere» (cosa che a Bilbo seccò moltissimo), si alzarono. Lo Hobbit dovette trovare posto per tutti, e riempire tutte le camere disponibili, preparando i letti su sedie e divani, prima di averli sistemati e di poter andare a dormire nel suo lettino, molto stanco e nel complesso assai poco felice.
«Senti senti!» disse Bilbo, e per caso lo disse ad alta voce.
«Senti che cosa?» dissero tutti volgendosi improvvisamente verso di lui, ed egli ne fu così confuso che rispose: «Senti che cosa ho da dire!».
«Che cosa?» chiesero.
«Be’, direi che dovreste andare a Est a dare un’occhiata in giro.
«Non capisco» disse Thorin, e Bilbo pensò che gli sarebbe piaciuto dire lo stesso. La spiegazione non sembrava spiegare niente.
«Tuo nonno» disse lo stregone con voce lenta e severa «dette la mappa a suo figlio prima di recarsi nelle miniere di Moria.
«Non è che io me ne sia impossessato; essa mi è stata data» disse lo stregone. «Tuo nonno Thror fu ucciso, come ben ricordi, nelle miniere di Moria da Azog l’Orco*».
«Maledetto il suo nome, sì» disse Thorin.
«E Thrain, tuo padre, scomparve il ventun aprile, che giovedì scorso faceva cent’anni, e tu non l’hai più visto da allora…».