
Cari amici, ben ritrovati alla rubrica sulle Lingue Tolkieniane.
Proseguiamo direttamente da dove ci eravamo lasciati: nel primo decennio del ‘900 il giovane Tolkien, già da allora in possesso di una forte inclinazione per lo studio delle lingue, si imbatte in esempi (ancora grossolani, seppur divertenti) di creazioni linguistiche fittizie. Il primo di questi linguaggi inventati, come abbiamo visto nello scorso episodio, fu l’Animalic, ideato da due cugine di J. R. R., Mary e Marjorie Incledon.
Racconta Tolkien che in seguito una delle due (da un’allusione alla sua carriera nelle arti visive indoviniamo trattarsi di Marjorie) abbandonò la comunità degli “animalofoni”, per dedicarsi ad altro. La sorella Mary – ideatrice originaria dell’Animalic – passò invece a inventare un nuovo idioma, leggermente più sofisticato del precedente, ma parimenti contraddistinto da una vena goliardica e ludica, come dimostra anche il significato del suo nome: il Nevbosh (“Nuovo Nonsense”).
Il Nevbosh, a differenza dell’Animalic, aveva una vaga “velleità di segretezza” – o meglio, come osserva Tolkien, sussisteva ancora una certa imprecisione nella distinzione tra “ambito gergale” e “ambito artistico”: vi si formò intorno una vera e propria comunità di “adepti” (il tutto sempre con toni leggeri e divertenti), ma contemporaneamente si andava sofisticando anche il gusto e la capacità inventiva a livello prettamente linguistico ed estetico. Il Nevbosh introduceva infatti l’invenzione fonemica, ovvero creava parole nuove, sebbene lo facesse perlopiù storpiando, o contaminando con codici linguistici disparati, parole della lingua inglese. Anche il giovane Tolkien partecipò attivamente alla creazione di questo idioma, entrando a far parte della “comunità Nevbosh”, e partecipando all’espansione del suo vocabolario e influenzandone l’ortografia.
[Si dà il caso che Tolkien, come “confessa” a un certo punto, non fosse completamente digiuno di esperimenti del genere; anzi, probabilmente frequentava il “vizio” da più tempo di Mary Incledon, nonostante fosse di pochi anni più giovane di lei – a cosa si riferisce Tolkien? Vi erano forse delle lingue inventate ancora precedenti al suo approccio con Animalic e Nevbosh? Se sì, non ne è rimasta alcuna traccia! ma è comunque evidente la passione di Tolkien fin da ragazzino per “ricamare” intorno all’Anglosassone e alle lingue germaniche, cosa che vedremo nuovamente verificarsi quando dedicheremo uno speciale al Gautisk, che sviluppò pochi anni dopo.]
L’utilizzo del Nevbosh era pratico: “pratico” come può esserlo un idioma creato da ragazzi in età scolare, alle prese con lo studio e con relativamente poco tempo per il gioco, ma “utile per scrivere lettere o anche per brevi sortite nel campo della poesia burlesca”.
Tuttavia divenne presto troppo complesso per sostenere delle conversazioni in maniera disinvolta come succedeva con l’Animalic (Tolkien a un certo punto “provoca”, dicendo: “Sono convinto che riuscirei tuttora a compilare un vocabolario di Nevbosh molto più corposo di quanto sia riuscito a fare Busbecq per la lingua dei goti della Crimea” – non possiamo che rimpiangere che non l’abbia stilato davvero, questo dizionario! Sarebbe stato divertente…).
Purtroppo l’unico frammento sopravvissuto del Nevbosh è quello che Tolkien si arrischia a condividere di fronte al suo uditorio (la traduzione in inglese, non presente nel saggio originale, fu riportata da Humphrey Carpenter nella sua Biography; l’unica licenza – qui corretta – era bocte tradotto come basket, “cesto”, per avere una rima più esatta con ask it; tuttavia bocte è la distorsione di pocket, “tasca”):

Dar fys ma vel gom co palt ‘hoc
Pys go iskili far maino woc?
Pro si go fys do roc de
Do cat ym maino bocte
De volt fac soc ma taimful gyróc!’
There was an old man who said “How
Can I possibly carry my cow?
For if I were to ask it
To get in my pocket
It would make such a fearful row!”
Questo frammento, l’unico “compiuto, alquanto demenziale” che ci è rimasto del Nevbosh, è già sufficiente a fornirci qualche indicazione sulle caratteristiche di questa lingua: come accennavo, le parole inventate del Nevbosh soffrono di una certa “soggezione alla lingua madre”, come puntualizza Tolkien.
Molte sono evidenti storpiature di parole inglesi: to diventa do, get diventa cat, there diventa dar… Altre sono frutto di “prestiti”, a loro volta adattati, da altre lingue di ambito europeo: maino ricorda il tedesco mein / meine, go “io” deve la sua origine al latino ego, come pure pro che significa for (e anche four, ci informa Tolkien, parlando di come appunto vengano mantenuti delle lingue “primarie” anche certe confusioni storiche o accidentali, come le omofonie).
È interessante notare che queste deformazioni, o adattamenti, rispondessero comunque inconsciamente e istintivamente a determinate relazioni fonetiche elementari, per cui ad esempio le consonanti dentali (t, d, þ, ð) della parola inglese venivano “trasposte” in un’altra dentale, passando magari da sorda a sonora (to > do) o viceversa (get > cat).
Altri cambiamenti, frutto di contaminazioni tra l’inglese ed altre lingue, erano certamente dettati, prima ancora che da qualsiasi principio fonetico definito (dopo tutto stiamo parlando di un gruppo di ragazzini e del loro gioco adolescenziale), da un gusto estremamente soggettivo di “mescolare le carte” tra l’inglese e le altre lingue studiate in età scolare (“lingue-scuola”).
Tolkien ci elenca alcuni di questi casi:
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francese: vel da vieux; pys da peux; pal da parler;
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latino: gom da homo; taim da timeo; roc da rogo; si con lo stesso significato, “se”;
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commistioni varie: volt (francese vouloir / latino volo + will, would); fys (latino fui + inglese was); co (latino qui + inglese who); far (latino fer + inglese bear), etc.
Un altro caso divertente è woc “cow = mucca”, che è sia la parola di lingua madre invertita nell’ordine delle lettere, sia un richiamo (intenzionale) al latino vacca o al francese vache. Un “effetto collaterale” dell’invenzione di questa parola fu la codifica della terminazione -oc che andava a sostituire diverse occorrenze di -ow corrispondenti nell’inglese: ecco come how diventa hoc, e row diventa gy-róc (chissà da dove è uscito fuori quel prefisso gy-! A me personalmente ricorda il prefisso ge- utilizzato per formare il participio passato in tedesco, un po’ come se la parola per “chiasso” potesse essere un sostantivo “participiale” dell’azione “far chiasso”; alcuni hanno più semplicemente ipotizzato che la parola possa derivare direttamente dal tedesco Geräusch).
A questo punto Tolkien si sofferma su alcune parole che sfuggono a questo schema di ricombinazioni e “ricicli” linguistici (e dunque per lui molto più interessanti, a posteriori!), come iski-li “plausibilmente” o lint “veloce,agile, sveglio”.
Afferma:
So per certo che [“lint”] è stata adottata in quanto la correlazione fra il suono lint e il concetto che vi si associava era fonte di piacere. Ecco affiorare un concetto nuovo ed entusiasmante. Di sicuro la “parola”, proprio come nelle lingue vere, una volta stabilita e nonostante debba la propria esistenza al piacere e al senso di adeguatezza che procura, diviene nel giro di breve tempo niente più che un simbolo convenzionale dominato dal concetto e dalla gamma di associazioni cui si riferisce, non dal rapporto tra suono e significato. [grassetto mio]
Questo concetto è fondamentale per la comprensione di come Tolkien vede le lingue: come creazioni estetiche, sicuramente con una funzione pratica ma la cui coniazione è dettata anche dal piacere dell’associazione tra la forma-vocabolo e il concetto, e non solo dal mero significato. In questo senso, egli non faceva differenza tra se stesso in quanto glossopoieta e gli ignoti “artisti” che avevano inventato, nel corso di secoli, più spesso millenni, le “lingue tradizionali”.
Secondo Tolkien, il tipo di invenzione che stava alla base di creazioni, seppur “rozze” e fanciullesche, come il Nevbosh, era alla base degli stessi meccanismi con cui si sono formate, pezzettino dopo pezzettino, tutte le lingue “vere”. E in quanto analoghi, i meccanismo erano, a suo parere, meritevoli di essere studiati.
Questo tipo di “invenzione” si verifica con tutta probabilità di continuo, con grande sconcerto della scienza “etimologica” che dà più o meno per scontato, o lo dava, l’assunto della creazione della lingua in forma completa in un unico momento del passato. […] Nelle lingue tradizionali l’invenzione è più sovente sottosviluppata [rispetto a una lingua costruita “a tavolino” come il Nevbosh], rigidamente limitata dal peso della tradizione, o piuttosto combinata a processi linguistici diversi, e trovando sbocco prioritario nell’“adattamento” al senso dei gruppi fonemici esistenti […] Così facendo, in entrambi i casi, si costruiscono “parole nuove”, dato che una “parola” è un gruppo di suoni suppergiù fisso, almeno temporaneamente, + un concetto suppergiù definito e fissato di per sé e nella sua connessione al suono-simbolo. Si costruiscono, non si creano. Nel campo delle lingue storiche, tradizionali o artificiali che siano, non esiste creazione ex vacuo. [grassetto mio]
Interessantissimo, a mio parere, l’iscrizione delle “lingue artificiali” nel campo delle “lingue storiche”: la nostra mente non può non correre in avanti, pensando all’attenta costruzione storica e all’evoluzione linguistica in-universe delle lingue elfiche del Legendarium di Arda. Nulla osta alle lingue artificiali (o “artistiche”, come le definirà più avanti) di seguire i medesimi meccanismi delle lingue tradizionali (Tolkien è ben attento a non definirle “naturali”), ovvero la loro dimensione di sviluppo storico e diacronico.
Le lingue artistiche, qualora siano adeguatamente fornite di un contesto storico/referenziale sufficientemente realistico, possano benissimo comportarsi come le lingue tradizionali, attraversare modificazioni, cambi nell’uso, assestamenti, subire influenze esterne…
Questo perché, in fondo, tutte le lingue sono “artistiche”, nella misura in cui abbia avuto un ruolo, nella loro creazione da parte di un numero immenso e crescente di contributori, il piacere dell’invenzione linguistica.
Non so se è chiaro dove si sta arrivando, e quali siano le implicazioni di questi ragionamenti, ma le riflessioni che Tolkien fa in questo saggio ci aiutano a capire come sia possibile che lui abbia dedicato così tanto tempo ad un passatempo apparentemente ozioso: quello che lui chiama “il piacere di liberarsi dal raggio d’azione necessariamente limitato che l’invenzione concede all’individuo negli ambiti tradizionali” è l’idea che le lingue artistiche abbiano in un certo senso un vantaggio nei confronti delle lingue tradizionali, e questo vantaggio consisterebbe nel poter far “esplodere” la carica inventiva senza doversi barcamenare in maniera disagevole (ovvero “adattando” i nuovi significati emergenti ad un sistema a volte rigido e non preparato ad accoglierli) tra la novità e il preesistente. In pratica quella di Tolkien è una “scommessa” filologica: riuscire, travalicando questi limiti, a costruire “in solo” ciò che interi popoli e culture hanno cesellato nell’arco di molte generazioni, e di studiare i nuovi rapporti (non più “casuali” – sebbene ricostruiti dalla ricerca filologica – ma scientemente ricercati e provocati) che si vengono a creare tra le parole e le cose alla luce di un senso estetico ben preciso.
Si torna a ciò che Tolkien introduceva all’inizio della conferenza: l’esempio dell’esperanto. Lingua affascinante in quanto “artificiale”, in quanto creazione di un solo uomo, un non filologo, e dunque “linguaggio umano scevro delle complicazioni dovute all’opera dei troppi cuochi che rovinano la minestra”: “questa è per me la miglior descrizione della lingua artificiale ideale.”
Qual era tuttavia il fatal flaw dell’esperanto? Il fatto di non avere leggende e miti che lo vivificassero. Nella lettera 180, scritta diversi anni dopo A Secret Vice, Tolkien è chiaro: “le «leggende» dipendono dalla lingua a cui appartengono; ma un linguaggio vivo dipende in egual misura dalle «leggende» che la tradizione ha conservato”. In mancanza di simili storie tramandate, una lingua è morta, molto più di quanto non lo siano le lingue che solitamente definiamo tali.
Il “completamento” di quest’argomentazione è, e forse non sorprenderà, l’invenzione degli Eldar: una specie di creature immortali, che serbano memoria dell’origine del proprio idioma, e tuttavia lo cambiano costantemente, adattandolo all’evoluzione del proprio gusto estetico; amano la lingua e il suo potenziale espressivo e artistico: non sono unicamente vincolati alla sua funzione comunicativa, anzi sono molto attenti alla trasmissione della conoscenza tramite la poesia e il canto; non sono necessariamente e ciecamente ossequiosi nei confronti della “tradizione”, ma sono capaci di conciliarla con l’innovazione (vedi i Noldor); tengono in gran conto il concetto secondo cui una lingua compatta e piacevole a livello estetico sia anche etica, e dunque intrinsecamente portatrice di verità [a differenza delle lingue degli Orchi, frutto di furti, manipolazioni e brutalizzazioni di lingue altrui, non a caso].
Gli Eldar sono sicuramente “molti cuochi”, ma le loro facoltà e caratteristiche innate (l’immortalità legata al Mondo) li rendono dei glossopoieti decisamente più “ordinati” degli esseri umani, e in questo senso ideali. Non rovinano la minestra, anzi la arricchiscono e vi aggiungono costantemente nuovi deliziosi ingredienti.
Insomma, possiamo dedurre che, se la creazione di lingue artistiche per Tolkien era un tentativo di arrivare a immaginare una “lingua artificiale ideale”, questa lingua avrebbe dovuto essere parlata da un popolo verosimilmente in grado di averla sviluppata e utilizzata. In altre parole: la lingua e il mito si devono fondere in un’unità concettuale. Alla lingua serve una “casa” per esprimersi al suo massimo, quanto (se non più) ad una storia ambientata in un universo letterario sub-creato serve una lingua ad hoc per risultare più credibile.
Prima di chiudere questo nostro episodio, vorrei tornare brevemente al Nevbosh, per dimostrare che tout se tient.
Tolkien aggiunge qualche curiosità sul termine lint “veloce, agile, sveglio”:
divenne presto sinonimo di prontezza mentale, e alla fine l’usuale parola Nevbosh per dire “imparare” diventò catlint (“get lint” = diventare lint), e per dire “insegnare” diventò faclint (“facere lint” = rendere lint).
È curioso che Tolkien si soffermi su questa parola, dato che… la conservò anche per il Quenya! La troviamo anche nel Namárië, e ha appunto conservato anche il significato di “swift” (“rapido”):
Yéni ve lintë yuldar avánier
The years have passed like swift draughts
“I lunghi anni sono passati come rapidi sorsi”
Perfino in quel gioco fanciullesco e “rozzo” che era il Nevbosh si celano dunque tracce delle creazioni più avanzate del Professore. Possiamo prenderlo quasi come un omaggio affettuoso nei riguardi di quel primo (o quasi!) esperimento da cui ebbe origine tutto.
Bibliografia:
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A Secret Vice (1931), in The Monsters and the Critics, and Other Essays (1983), ed. by Christopher Tolkien
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The Letters of J. R. R. Tolkien (1981), ed. by Christopher Tolkien
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JRR Tolkien: A Biography (1977), by Humphrey Carpenter
Sitografia:
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Ardalambion / Nevbosh: https://ardalambion.net/nevbosh.htm
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Versione italiana a cura di Gianluca Comastri: http://ardalambion.immaginario.net/ardalambion/nevbosh.htm
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Dal nostro sito si può consultare l’intera raccolta di post dedicati alle Lingue Tolkieniane:
https://www.raccontiditolkien.it/category/analisi/lingue/
-Rúmil