Cari amici, ben ritrovati alla rubrica sulle Lingue Tolkieniane.
Negli scorsi episodi abbiamo introdotto le riflessioni che Tolkien compie nel saggio-conferenza A Secret Vice sulle “lingue artificiali / artistiche”, traendo spunto dalle prime forme (a suo dire ancora grezze) di lingue fittizie che gli era capitato di incontrare (o di coniare egli stesso) negli anni della sua giovinezza.
Dopo aver brevemente trattato l’Animalic e il Nevbosh, esperienze ancora “condivise” con suoi coetanei (le cugine Incledon e altri giovanissimi amici comuni, parrebbe), Tolkien comincia ad addentrarsi nel resoconto di come vennero alla luce i suoi primi esperimenti completamente privati, e mai confessati ad un pubblico prima di quel momento.
A questo proposito Tolkien ammette, scusandosi, di dover diventare “sempre più autobiografico”, man mano che procede nel suo racconto: infatti, mentre il Nevbosh era stato costruito da una piccola “comunità di parlanti”, le prossime esperienze di cui darà un resoconto saranno sue esclusive individuali – e pertanto anche meno “simmetriche”, meno soggette all’agone intersoggettivo in seno al quale si formano le lingue tradizionali:
Il Nevbosh, pur nella sua rozzezza, era una “lingua” molto più compiuta di quelle cui andremo a occuparci adesso. Era costruita per essere parlata, almeno in teoria, e scritta, come mezzo di comunicazione fra una persona e l’altra. Era condivisa. Ciascun elemento andava recepito da più di una persona sola per diventare di uso corrente, e anzi per entrare materialmente nel vocabolario Nevbosh. Di conseguenza, era ostacolata nella sua evoluzione da questioni di “simmetria” vuoi grammaticale, vuoi fonetica, come del resto succede per le lingue tradizionali. Solo la sua assunzione nel patrimonio comune di un gruppo più allargato, e lungo l’arco di un periodo ben più esteso, sarebbe riuscita a produrre in essa almeno una parte degli effetti tipici di simmetria parziale e sovrapposta presenti in tutti i linguaggi umani tradizionali. Il Nevbosh rappresentava l’apice della capacità linguistica condivisa di una piccola comunità, non certo il meglio della produzione del suo miglior componente.
Tolkien si rese presto conto che, se voleva che quel passatempo soddisfacesse la propria sensibilità fino in fondo, avrebbe dovuto farlo progredire oltre il semplice rango di “gioco”, e portarlo ad un livello di maggiore sofisticazione estetica e (in seguito) di maggiore complessità strutturale e verosimiglianza.
È dunque nel perfezionarsi della forma-vocabolo che deve consistere il progresso allo stadio successivo al Nevbosh
commenta, sottolineando come i suoi sforzi fossero sempre più tesi a una codifica di linguaggi che si evolvessero non solo per il fattore comunicativo, ma anche per un fattore più individuale e personale, come accennavamo la volta scorsa, ovvero “il piacere del suono articolato e del suo uso simbolico indipendente dalla necessità comunicativa, per quanto a essa intrecciato costantemente”.
Questa frase di Tolkien può richiamarci alla mente una frase simile, forse ancor più estrema dal punto di vista teorico, pronunciata dal letterato italiano e intellettuale della neoavanguardia Giorgio Manganelli:
Hanno cercato di persuaderci che le parole hanno un significato e non un suono, o se hanno un suono, è un suono immorale. Credo che le parole siano certamente un suono, ma non sono sicuro che abbiano un significato.
Le parole hanno un fascino e un’etica già nel loro aspetto fonosimbolico. Il significato che vi attribuiamo non è l’unico aspetto che si dovrebbe considerare all’interno del ragionamento sul linguaggio, né l’unico fattore che ha determinato la sua evoluzione.

È sulla base di riflessioni di questo tenore che Tolkien indirizzò i seguenti “esperimenti”. Il Naffarin è “lo stadio successivo di cui possiedo prove documentali”, presumibilmente giunto dopo altri tentativi minori o non altrettanto riusciti, ed è la sua prima creazione linguistica “squisitamente personale”. Ahimè è andato quasi completamente distrutto, e, non essendo mai stato condiviso o divulgato prima dell’occasione della conferenza, non se ne sono conservate tracce altrove. L’unico frammento che rimane è quanto Tolkien legge agli uditori di A Secret Vice, ed è il seguente:
O Naffarínos cutá vu navru cangor
luttos ca vúna tiéranar,
dana maga tíer ce vru encá vún’ farta
once ya merúta vúna maxt’ amámen.
Purtroppo Tolkien, forse in un eccesso di pudore, non fornisce la traduzione di quest’unica strofa sopravvissuta, e dunque non sappiamo pressoché nulla del Naffarin! L’unico dettaglio che il Professore ritiene di voler condividere è il significato di vrú, che definisce come “l’unica parola significativa”, dal significato di “ever” (“sempre”), parola che “nelle lingue da me create appare predominante in modo davvero curioso (fissazione di antica data per una specifica associazione, direi, e di cui non sono più in grado di liberarmi).”
Quello che guidò Tolkien nella creazione del Naffarin era dunque un insieme di predilezioni linguistiche individuali; di inevitabili influenze della lingua madre (sebbene in misura molto minore rispetto al Nevbosh) e di alcune delle lingue apprese (specialmente latino e spagnolo; mentre risultano totalmente assenti – per una precisa scelta – influenze del francese, del tedesco, del greco, pur essendo lingue conosciute da Tolkien e dunque “disponibili”); da un gusto fonetico per suoni specifici (e l’assenza di altri, comuni in inglese, come w, þ, š, ž); il tutto condito da ciò che Tolkien chiama “un elemento originario puramente individuale”.
È questo “misterioso” elemento originario che sarebbe stato di lì a poco approfondito e studiato da Tolkien. Un elemento di originalità creativa e immaginativa che produca un sistema linguistico affatto “alieno” (seppur non privo di legami più “sotterranei”, lasciati per una ragione ben precisa) rispetto alle lingue del Mondo Primario – o più che altro meno derivativo e meno governato dallo schema, già visto in questi primi esperimenti, di parziale “appropriazione” dell’estetica e della struttura, debitamente “deformata” e reinterpretata secondo un gusto già personale, delle lingue tradizionali.
La “scommessa”, d’ora in avanti, sarebbe stata quella di coniare delle lingue tradizionali ex novo, simulando, anzi emulando, i medesimi processi alla base di quelle lingue che fino a quel momento erano state per lo più “predate” dall’Animalic, dal Nevbosh e dal Naffarin.
Da questo punto in avanti dovete perdonare dell’egocentrismo allo stato puro. Ulteriori esempi sono rintracciabili solo dall’esperienza isolata e personale. Il mio ometto, con il suo interesse per i meccanismi espressivi delle relazioni sintattiche, è troppo inconsistente per servirmene qui. E sarei lieto di mostrarvi quanto sia interessante e piacevole quest’arte privata, domestica e multiforme, oltre naturalmente che di sottoporre al vostro esame gli spunti di riflessione da quest’arte sollevati (a parte, com’è ovvio, il dubbio che ai suoi praticanti manchi qualche rotella).
Con queste parole, autoironiche e appassionate a un tempo, com’era sua abitudine, Tolkien sta dunque per introdurre l’argomento dell’ultima parte della conferenza: la creazione del Q(e)nya e del “Sindarin” (sebbene all’epoca fosse anche Noldorin).
Nel corso dei prossimi appuntamenti vedremo quali esempi (poetici!) porta e quali riflessioni offre la sua disamina.
Alla prossima!
Bibliografia:
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A Secret Vice (1931), in The Monsters and the Critics, and Other Essays (1983), ed. by Christopher Tolkien
Sitografia:
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Ardalambion / Naffarin: https://ardalambion.net/naffarin.htm
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Versione italiana a cura di Gianluca Comastri: http://ardalambion.immaginario.net/ardalambion/naffarin.htm
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Dal nostro sito si può consultare l’intera raccolta di post dedicati alle Lingue Tolkieniane: https://www.raccontiditolkien.it/category/analisi/lingue/
-Rúmil