Cari amici, ben ritrovati alla rubrica dedicata alle Lingue Tolkieniane. Come annunciato al termine dello scorso appuntamento, vorrei oggi compiere qualche riflessione di ampio respiro sul tema della nostra rassegna.
Lo farei provando a rispondere ad una domanda, che alcuni potrebbero porsi leggendo il titolo di questo post: “Ma davvero la creazione di linguaggi inventati è così centrale nell’opera di Tolkien? Non è piuttosto un elemento accessorio, che serve a colorire l’ambientazione, a renderla più tridimensionale e letterariamente credibile?”
Non pretendo di riuscire ad esaurire l’argomento nello spazio di un post (sebbene confutare la seconda domanda sia piuttosto semplice), ma mi accontenterò di offrire qualche spunto di riflessione.
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John Ronald Reuel Tolkien è un autore a dir poco peculiare, all’interno dello scenario letterario del suo secolo. Lo è perfino se accettiamo l’affermazione, apparentemente provocatoria, di Tom Shippey (Author of the Century, vii) sul fatto che “la categoria letteraria dominante del ventesimo secolo” sia stata “il fantastico”.
Infatti, per quanto possiamo facilmente inscrivere la scrittura fantastica di Tolkien e la creazione (o sub-creazione, come avrebbe detto lui) del suo universo letterario all’interno di una tendenza più che affermata, e accanto a numerosi colleghi (che vanno da Orwell a Golding, da Vonnegut a Le Guin, da Lovecraft a Pynchon, da King a Pratchett), non possiamo d’altro canto ignorare il fatto che il Legendarium di Arda possiede delle caratteristiche precipue, che non condivide con nessuno degli universi immaginifici creati dalla fantasia di questi altri autori.
È sempre Tom Shippey a darci la chiave di questa sua particolarità: «Se avessero mai chiesto a Tolkien di descriversi in una parola, la parola che egli avrebbe scelto sarebbe stata, io credo, “filologo”» (Ib., xi; grassetto mio).
L’opera di Tolkien è il più delle volte ricordata per la sua grande capacità di fascinazione fantastica, per i suoi temi universali, per la sua prosa suggestiva ed evocativa. C’è chi ha posto l’accento sulla sua incredibile capacità di cesellare la forma fino a produrre (nel caso del Signore degli Anelli, ad esempio) un romanzo che assomiglia quasi a una lunghissima e complessa filastrocca, evidenziando così l’esercizio creativo e geniale della lingua inglese. C’è chi ha posto l’accento sulla sua cultura filologica per concentrarsi strettamente sulle relazioni tra la propria opera e la sua tradizione letteraria di riferimento. C’è chi lo considera “semplicemente” un geniale worldbuilder.
Tuttavia ciascuno di questi aspetti, indubbiamente di rilievo, in un certo senso “discende” da una qualità che li precede e include tutti quanti; e questa è stata indubbiamente e magistralmente sintetizzata dallo stesso Tolkien nella conferenza A Secret Vice (1931): sto parlando, ovviamente, della glossopoiesi, ovvero della creazione di linguaggi inventati.
Giusto per introdurre l’argomento, e capire di cosa stiamo parlando, vorrei riportare di seguito la frase con cui chiosò il Professore nell’occasione di quella celebre conferenza del 1931:
La lingua ha rafforzato l’immaginazione, e al tempo stesso l’immaginazione ha reso libera la lingua. Chi mai potrà dire se sia stata la forma dell’aggettivo libero a creare visioni bizzarre e meravigliose, o piuttosto non siano state queste visioni bizzarre e meravigliose dell’immaginario a liberare l’aggettivo?
Potrà sembrare esagerato sostenere che dalle lingue del Mondo Secondario – come Tolkien definiva il proprio universo letterario – dipenda l’intera costruzione della narrativa tolkieniana, nonché della sua impalcatura tematica e, se vogliamo, filosofica; ma personalmente trovo molto più improprio (continuare a) estromettere questo fondamentale ambito dal discorso italiano su Tolkien, o sottovalutare quanto esso incida sulla sua opera.
Si dà il caso che lo stesso Tolkien abbia a più riprese “confessato” il proprio vizio segreto, e abbia ammesso platealmente che la passione per la coniazione di lingue fantastiche ha preceduto e determinato qualsiasi tentativo di intraprendere la costruzione di mondo di un universo fantastico all’interno del quale quei costrutti linguistici potessero trovare spazio e “vita”, per così dire.
Una delle “prove” di questa filiazione è, banalmente, che già i primissimi racconti (le prime stesure dei Lost Tales, composte tra il 1916 e il 1917) contenessero un apparato di “nomi elfici” – seppure a uno stadio ancora “preistorico”, rispetto all’evoluzione che avrebbe attraversato nei decenni successivi.
In effetti, anche solo dal punto di vista strettamente “biografico”, se, cioè, gettiamo uno sguardo alla vita di Tolkien, possiamo notare come l’attività di creazione linguistica “inizi prima” e “finisca dopo” l’attività di narratore, e intendo in senso propriamente cronologico: la “incorpora” storicamente, la include. La precede e la determina, come dicevamo, ma non solo: continua a ricamarvi sopra anche dopo che la spinta creativa squisitamente letteraria si è ridotta – se escludiamo certi scritti narrativi minori, come alcune redazioni della storia di Galadriel e Celeborn, che risalgono addirittura al 1973, ovvero pochi mesi prima della morte di Tolkien, e che comunque includono notazioni di carattere linguistico!
Del resto, Tolkien stesso scriveva a Milton Waldman nel 1951:
In order of time, growth and composition, this stuff began with me – though I do not suppose that that is of much interest to anyone but myself. I mean, I do not remember a time when I was not building it. Many children make up, or begin to make up, imaginary languages. I have been at it since I could write.
[“In ordine di tempo, sviluppo e creazione, questo materiale è cominciato con me – anche se non penso che questo interessi altri che me. Voglio dire, non riesco a ricordare un’epoca in cui non lo stessi costruendo. Molti bambini creano, o cominciano a creare, linguaggi immaginari. Io ho cominciato a creare questo non appena ho imparato a scrivere.”]
(Lettera n. 131)
Ma se pure quest’argomentazione “cronologica”, per così dire, non dovesse soddisfarci, proviamo a dare un’occhiata ad alcune delle affermazioni più eloquenti del Professore a questo riguardo:
Tuttavia, citiamo alcune delle sue affermazioni più eloquenti a riguardo:
Le storie fantastiche sbocciarono dalla mia predilezione per la creazione di lingue immaginarie. Ho scoperto, come altri, che per condurre queste creazioni a un livello minimo di completezza, una lingua richiede una abitazione adeguata e una storia in cui possa svilupparsi. (Lettera n. 294)
Quello che penso sia un “fatto” primario del mio lavoro, che è […] fondamentalmente di ispirazione linguistica. […] Non è un “hobby”, nel senso di qualcosa di affatto diverso dal lavoro, preso come un momento di sollievo. L’invenzione di linguaggi è il fondamento. Le “storie” sono state redatte piuttosto per fornire un mondo per i linguaggi che non il contrario. Per me un nome viene prima e la storia ne consegue. Avrei preferito scrivere in “elfico”. (Lettera n. 165)
Nessuno mi crede quando dico che il mio lungo libro è un tentativo di creare un mondo in cui una forma di linguaggio accettabile dal mio personale senso estetico possa sembrare reale. Ma è vero. Un intervistatore (tra i tanti) mi ha chiesto che cosa fosse al postutto Il Signore degli Anelli e se fosse una “allegoria”. E io ho detto che era un tentativo di creare una situazione in cui elen síla lúmenn’ omentielmo [sic] potesse essere un saluto comune, e che la frase era molto antecedente al libro. (Lettera n. 205)
Dietro le mie storie esiste una serie di linguaggi (la cui struttura è per lo più solo abbozzata) […] Da questi linguaggi derivano quasi tutti i nomi che appaiono nelle mie leggende. Questo conferisce una certa caratteristica (una coesione, uno stile linguistico consistente, e un’illusione di storicità) alla nomenclatura […] Non tutti considereranno importante questa faccenda come io la considero, «condannato» come sono ad una particolare sensibilità in questo settore. (Lettera n. 131)
Alla luce di queste ed altre affermazioni, possiamo ben dire che le lingue del Mondo Secondario e i meccanismi di interrelazione (e interdipendenza) tra la costruzione linguistica e la costruzione narrativa meritino un’attenzione particolare, se si vuole parlare di J. R. R. Tolkien in maniera completa, rendendo giustizia alla complessità della sua operazione, letteraria e filologica a un tempo.
Alcuni dei più grandi studiosi ed esegeti di Tolkien, come il già citato Tom Shippey (The Road to Middle-earth) o come l’eccellente Verlyn Flieger (Splintered Light), hanno già sviscerato l’argomento, facendo emergere l’intima connessione tra questi due livelli (lingua e narrazione).
Si potrebbe sostenere che l’analisi del retroterra linguistico del Legendarium tolkieniano non si limiti a illuminare alcuni aspetti (magari i più reconditi) della narrazione, o a fornirne nuove chiavi di lettura; ma che riqualifichi l’intero approccio a queste storie, e che ci faccia riconoscere al loro interno un vero e proprio percorso di filosofia del linguaggio, specialmente grazie alle nomenclature (nomi di persone, di luoghi, di concetti).
In Tolkien, infatti, ogni nome racconta una storia; ogni parola in ciascuna delle sue lingue inventate – dal Quenya al Sindarin al Khuzdul all’Adûnaico – nasconde una natura molteplice e polisemica (anche in virtù dell’adesione di Tolkien alle teorie di Owen Barfield sullo sviluppo del linguaggio, come spiega Flieger nel fondamentale saggio Schegge di Luce); ogni elemento della narrazione è sorretto da un’impalcatura linguistica (con regole grammaticali, fonologiche, morfologiche, storia interna, differenziazione, fonti “interne” fittizie che ne danno conto…), all’interno di un equilibrio in cui le lingue conferiscono verosimiglianza al mondo narrativo, e il mondo narrativo conferisce vita alle lingue.
Scrive Tolkien nella Lettera 180, a questo proposito:
[…] le «leggende» dipendono dalla lingua a cui appartengono; ma un linguaggio vivo dipende in egual misura dalle «leggende» che la tradizione ha conservato. (Per esempio, la gente non riesce a realizzare che la mitologia greca dipende molto più dalla meravigliosa estetica della sua lingua e dai nomi di persone e posti che dal suo contenuto, benché naturalmente dipenda da entrambi. E viceversa. Volapuek, esperanto, ido, novial, etc etc, sono morti, molto più morti di altre antiche lingue non più usate, perché i loro autori non hanno mai inventato delle leggende in esperanto.)
Il mio auspicio è che questo universo (vastissimo e incredibilmente affascinante) possa essere sempre più oggetto di attenzione, curiosità, indagine, studio da parte dei lettori italiani di Tolkien.
È ahimè sconcertante che pochissimi studiosi (tra cui Gianluca Comastri, che in ciò è stato pionieristico e “apripista” nel nostro paese) abbiano riservato alla linguistica tolkieniana la priorità che le spetta in seno alla legacy (già sconfinata e multiforme) di questo autore; questa disattenzione o sottovalutazione stride specialmente a fronte di una community internazionale di appassionati e studiosi che già da diversi decenni ha abbracciato e coltivato lo studio delle lingue tolkieniane. Privilegiare sempre e soltanto le considerazioni (di per sé sacrosante, nonché gravide di implicazioni) sull’inglese di Tolkien, sulla sua cultura filologica e letteraria, ma allo stesso tempo trattare la sua opera glossopoietica poco più che alla stregua di un divertissement da filologo pazzoide, o derubricarla unicamente a “elemento di contorno”, non rende affatto giustizia alla profonda interconnessione tra lingua e racconto, che del resto, come accennavamo, è stata già messa in risalto dai più grandi studiosi al mondo del Professore. D’altro canto, integrare nella conoscenza di questo autore e delle sue opere l’idea che la lingua (non solo quella del “Mondo Primario”, ma anche quelle del “Mondo Secondario”!) ne costituisca l’elemento fondamentale significa aver compreso a fondo la sua eccezionalità e il suo contributo.
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Dai prossimi episodi cominceremo un’analisi il più possibile approfondita dei contenuti della conferenza A Secret Vice, affrontando anche le prime esperienze di linguaggi inventati in cui Tolkien si imbatté, da giovanissimo (l’Animalic e il Nevbosh – a quest’ultimo contribuì attivamente) e i primi esperimenti di creazione individuale (il Naffarin). Successivamente dedicheremo un (breve) extra a due “linguaggi minori”, il Gautisk e il Mágol, citati unicamente in studi secondari e le cui fonti primarie restano ancora non pubblicate o disperse.
Alla prossima! Vi auguro, come sempre, buone letture!
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Dal nostro sito si può consultare l’intera raccolta di post dedicati alle Lingue Tolkieniane:
https://www.raccontiditolkien.it/category/analisi/lingue/
Immagine: “The Languages of Middle-earth”, da chatteringchipmunks.com
-Rúmil