La Battaglia dei Campi del Pelennor, di Alan Lee

La Battaglia dei Campi del Pelennor

Minas Tirith, 15 marzo 3.019 T.E. 

 

La battaglia dei Campi del Pelennor è stata la più grande e cruenta battaglia della Terza Era, combattuta alle porte di Minas Tirith tra gli eserciti di Gondor, poi raggiunti dai Cavalieri di Rohan e da un esercito del Sud, contro le forze di Mordor e Minas Morgul, rinforzate da truppe di Haradrim dal Sud ed Esterling da Rhûn.

Le truppe di Mordor erano composte da circa 18.000 Haradrim, diversi Olifanti da guerra degli Haradrim, un numero sconosciuto di Esterling e Orchi. Questo esercito era il più grande schierato in oltre 3.000 anni, così imponente che “un esercito di tale grandezza non era mai uscito da quella valle dai tempi del potere di Isildur; nessuna schiera tanto feroce e potente nelle armi aveva mai assalito i guadi dell’Anduin; e tuttavia era solo uno, e non il più grande, tra gli eserciti che Mordor aveva fatto avanzare.”

La Battaglia dei Campi del Pelennor, di Per Sjögren
La Battaglia dei Campi del Pelennor, di Per Sjögren

Il numero dei difensori era considerevolmente inferiore. La città era inizialmente presidiata dalle Guardie della Cittadella, suddivise in tre compagnie (forse di più), per un totale di probabilmente alcune centinaia di uomini.

Meno di 3.000 uomini dal sud di Gondor risposero alla chiamata d’aiuto prima che iniziasse l’assedio, tra cui 200 uomini “ben armati” da Forlong, 700 uomini d’arme più “una compagnia di cavalieri” da Imrahil, Principe di Dol Amroth, che svolgerà un ruolo cruciale durante l’Assedio e la Battaglia. 300 fanti erano poi giunti dalla Valle del Ringlò, 500 arcieri da Duinhir, 300 uomini da Pinnath Gelin, “alcuni cupi montanari senza un capitano” da Lamedon, un gruppo di “cacciatori, pastori e uomini di piccoli villaggi, scarsamente equipaggiati” da Anfalas, e 100 “pescatori” da Ethin. Le forze di soccorso dei Rohirrim contavano 6.000 uomini.

L’attacco cominciò con l’arrivo dell’esercito di Morgul da Osgiliath, che si distribuì nel Pelennor, la piana prospiciente la città, dando fuoco ai campi e alle fattorie che vi si trovavano. Le forze del Nemico si preparò all’assedio scavando profonde trincee e disponendo le catapulte. Agli occhi dei difensori apparivano molto lontane: ma come presto ebbero modo di verificare, queste macchine d’assedio non erano come le altre. E già dai primi tiri i loro proiettili erano capaci di volare a grande altezza, ben oltre le mura della città e fino al primo livello. E fu chiaro a molti che per mezzo delle arti di Sauron, molti di questi proiettili esplodevano e si incendiavano, causando diversi incendi nei livelli più bassi della città.

Insieme ai proiettili delle catapulte, gli Orchi scagliavano anche le teste dei soldati di Gondor caduti e di altri uomini che avevano ucciso, seminando disperazione tra i difensori. Tuttavia, queste macchine, pur causando il panico all’interno della città, non riuscivano comunque a infliggere danni gravi all’immensa prima cinta muraria, impedendo un’invasione vera e propria di Minas Tirith.
Fu in quel momento che Grond giunse sul campo di battaglia: era questo un grande ariete, chiamato così in onore del Martello dell’Oltretomba impugnato da Morgoth nella Prima Era. Giunse di fronte ai grandi cancelli a mezzanotte, e il Re Stregone venne a cavallo al suo fianco, mormorando oscuri incantesimi verso di esso. E tale fu l’effetto del suo sortilegio, che Grond impiegò solo tre colpi per abbattere i cancelli. E il Re Stregone li varcò senza incontrare resistenza, eccetto un uomo, solo su un cavallo, che si pose tra lui e la città.

 

In attesa, immobile e silenzioso in mezzo allo spiazzo del Cancello, sedeva Gandalf su Ombromanto: Ombromanto, l’unico dei liberi cavalli della terra capace di tollerare il terrore, impassibile, risoluto come un’immagine scolpita a Rath Dínen.

“Non puoi entrare qui”, disse Gandalf, e l’enorme ombra si fermò. “Torna negli abissi preparati per te! Torna indietro! Affonda nel nulla che attende te e il tuo Padrone. Via!”.

Il Cavaliere Nero fece scivolare il cappuccio e, meraviglia! portava una corona regale; eppure sotto di essa vi era una testa invisibile, poiché fra la corona e le grandi e scure spalle ammantate brillavano rossi i fuochi. Da una bocca invisibile proruppe un riso mortale. “Vecchio pazzo!”, disse. “Vecchio pazzo! Questa è la mia ora. Non riconosci la Morte quando la vedi? Muori adesso, e vane siano le tue maledizioni!”. E con ciò levò alta la spada e delle fiamme ne percorsero la lama.

Gandalf non si mosse. In quell’istante, lontano in qualche cortile della Città, un gallo cantò. Era limpido e chiaro, ignorava la stregoneria e la guerra, non faceva che acclamare il mattino che su nel cielo, oltre le ombre di morte, si avvicinava con l’alba. E come in risposta giunse da lontano un altro suono.

Corni, corni e corni. Si udivano fiochi echeggiare nei fianchi del cupo Mindolluin. Grandi corni del Nord suonavano con forza. Rohan era finalmente arrivato.

J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Capitolo IV, “L’Assedio di Gondor”

La carica di Théoden, di Denis Gordeev
La carica di Théoden, di Denis Gordeev

Così giunsero Théoden e i Rohirrim, cavalcando nella notte attraverso la valle Cavapietra, sorprendendo da Est il nemico che si apprestava ad invadere il Primo Cerchio di mura. Molto più in alto, nella Cittadella ove lontano arrivava il suono dei corni di Rohan, si stava intanto consumando la tragedia di Denethor. E il Re Stregone fu costretto a lasciare il cancello distrutto per guidare l’ala destra delle sue armate, per fronteggiare gli Eorlingas.

Ma intanto i Cavalieri si erano già lanciati al seguito del loro Re, e la loro furia montava via via che si avvicinavano all’esercito avverso: e le prime linee furono spazzate via come da una tempesta. I nemici si trovarono così tagliati in due: le truppe più avanzate già quasi all’arma bianca dentro la città, e le riserve a Sud che non potevano contribuire all’assalto a causa della carica di Rohan.

Il Re Stregone, per contenere la carica dei Rohirrim, mosse gli Haradrim lasciati fino ad allora di riserva, che avanzarono da Sud accompagnati dai loro Olifanti. Il loro intervento costrinse la cavalleria a virare per seguire la guardia di Théoden, che nel frattempo si era diretto contro il nuovo nemico.

Il Serpente Nero, di Anke Eißmann
Il Serpente Nero, di Anke Eißmann

Tanto forte era il suo braccio, e terribile il suo sguardo, ch’egli aprì un verde cuneo tra gli Haradrim, giungendo fino al loro comandante, che osservava la scena a fianco del proprio vessillo, un serpente nero in campo scarlatto. E il fendente con cui Théoden lo abbatté fu così violento che decapitò il vessillifero insieme allo stendardo, gettando i nemici, ormai privi di un capo, nella confusione.

Ma l’azione degli Haradrim non era stata vana per il comandante Nero, perché aveva avuto il risultato di interrompere la carica dei Rohirrim, ora costretti al combattimento a terra.

Théoden viene disarcionato, di JG Jones
Théoden viene disarcionato, di JG Jones

Ma il loro vigore rappresentava un pericolo. Così spiccò il volo sulla propria bestia alata e calò verso Re Théoden come una nera ombra di terrore. E il destriero del sovrano, Nevecrino, non resse alla paura, perse il controllo e fu colpito da un dardo nero. Il cavallo crollò al suolo con il re ancora in sella, e cadendogli addosso lo ferì mortalmente.

Tutto intorno a Théoden giacevano i suoi uomini, uccisi in battaglia, e i pochi superstiti fuggirono dinanzi all’orrore del Re Stregone. La creatura mostruosa affondò gli artigli nel collo di Nevecrino, pronta a divorare il corpo del re.

Ma dinanzi a lui si levò Dernhelm, uno dei guerrieri che combattevano al suo fianco. E piangeva, guardando il corpo straziato del suo Signore. Ma il volto era fiero mentre si frapponeva fra la belva e Théoden.

Il Re Stregone rise beffardo, e dichiarò che nessun uomo vivente poteva frapporsi sulla sua strada.

“Ma io non sono un uomo vivente! Stai guardando una donna. Éowyn io sono, figlia di Éomund. Tu ti ergi fra me e il mio signore dello stesso mio sangue. Vattene, se non sei  immortale! Viva o morente ti trafiggerò, se lo tocchi”.

L’essere alato rispose strillando, ma lo Schiavo dell’Anello rimase silenzioso, come colto da un improvviso dubbio. Lo stupore sopraffece per un attimo la paura di Merry. Egli aprì gli occhi e l’oscurità scomparve. A pochi passi da lui sedeva la grossa bestia, e intorno a essa tutto sembrava buio, e su di essa si ergeva il Signore dei Nazgûl come un’ombra di disperazione. Leggermente più a sinistra, di fronte alla bestia, era colei ch’egli aveva chiamata Dernhelm. Ma l’elmo che nascondeva il suo segreto era caduto e i luminosi capelli sciolti sulle spalle brillavano come pallido oro.

I suoi occhi grigi come il mare erano duri e spietati, benché sulla sua guancia scorressero delle lacrime. Reggeva in mano una spada, difendendosi con lo scudo contro gli spaventosi occhi del nemico. Era dunque Éowyn e Dernhelm al tempo stesso.

J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Capitolo VI, “La Battaglia dei Campi del Pelennor”

Éowyn e il Nazgûl, di Craig J. Spearing
Éowyn e il Nazgûl, di Craig J. Spearing

Il Re Stregone rimase ancora qualche secondo in preda al dubbio, come se ricordasse la profezia che Glorfindel fece a Eärnur molti anni prima. Ma poi cominciò subito ad attaccarla con grande impeto. Ed Éowyn rispose, uccidendo la bestia su cui era seduto, ma venendo rapidamente costretta sulla difensiva dalla grande mazza del Nazgûl. E infine essa precipitò sullo scudo di lei, che andò in frantumi. Ed ella rimase indifesa sotto lo sguardo dello spettro, che ora si avvicinava, sollevando la mazza per un ultimo letale fendente.

Ma proprio in quel momento, le catene del Fato che lo tenevano avvinto vennero sciolte: perché Meriadoc Brandybuck, strisciando al suo fianco, aveva conficcato la Lama dell’Ovesturia che portava con sé dai Tumulilande nella parte posteriore della sua gamba “squarciando il nero manto e la cotta di maglia, e colpendo il tendine del suo possente ginocchio“.

E mentre il Nazgûl incespicava, Éowyn si alzò barcollando e raccolte le sue ultime forze conficcò la propria spada tra la corona e il manto. La spada si ruppe, ma il Re Stregone non era più: con un ultimo disperato lamento svanì nell’oscurità di cui già faceva parte. E così morì il primo e più possente degli Schiavi dell’Anello.

Ma l’esercito di Mordor non crollò dopo la morte del suo generale. Il comando fu assunto da Gothmog, il capitano degli Orchi di Minas Morgul, che riorganizzò le truppe e si frappose a una seconda carica guidata da Éomer, che nel frattempo aveva assistito alla morte di Théoden ed era stato da lui nominato nuovo Re del Mark. “Cavalca ora verso la vittoria“, gli disse Théoden. Ed Éomer, raccolti quanti alleati possibili, cavalcò. E nero era il suo animo, poiché aveva visto il corpo esanime di sua sorella giacere vicino a quello del Re, e aveva lasciato pochi Uomini indietro, con il compito di portarla alla città, da dove una sortita guidata da Imrahil di Dol Amroth aveva messo al sicuro la prima cerchia di mura.

Ma fu tradito dalla sua stessa furia: i cavalli impazzirono alla vista dei giganteschi Mûmakil, mentre i cavalieri Haradrim si ritiravano tra le zampe delle colossali bestie. Gothmog rispose all’avanzata di Éomer lanciando contro i Rohirrim le sue riserve: Esterling armati d’asce, Variag del Khand, Haradrim e guerrieri del Lontano Harad, con occhi bianchi e lingue rosse come fiamme — creature simili a mezzitroll, tenute in attesa a Osgiliath. Parte di queste truppe fresche si mosse per accerchiare i Rohirrim alle spalle, mentre il resto si portò a ovest, per impedire che le forze di Gondor si unissero alla cavalleria di Rohan.

Éomer e i suoi erano a meno di un miglio dai moli di Harlond, a sud della città, quando comprese che le forze nemiche erano troppo soverchianti per uno scontro in campo aperto. E si risolse a difendere la propria posizione su una verde collina, consapevole delle scarse speranze rimanenti.

Ma il vento che spirava da Sud recava con sé insperate notizie. Perché le nere navi che si scorgevano sull’Anduin, e che le campane di Minas Tirith avevano già segnalato arrivare, non recavano con sé i Corsari di Umbar. Nel cielo del mattino, la prima nave espose infatti uno stendardo: ed esso era Nero e al suo centro campeggiava l’Albero Bianco, circondato da sette stelle e sormontato da una corona. Il simbolo dei Elendil che nessuno utilizzava da moltissimo tempo.

Così giunse Aragorn, di Ted Nasmith
Così giunse Aragorn, di Ted Nasmith

Così giunse Aragorn, erede di Isildur, alla battaglia dei Campi del Pelennor, e con sé conduceva un grande esercito proveniente dai feudi del Sud, che si riversò dai porti di Harlond sulle armate nemiche. Éomer e Aragorn si incontrarono in mezzo alla battaglia, e insieme guidarono verso Est le proprie forze, riunite con quelle del Principe di Dol Amroth, costringendo il Nemico a un’impossibile ritirata verso Osgiliath e l’Anduin, ove la maggior parte di coloro che non si arresero perì travolto dalle acque.

La battaglia era vinta, ma molte erano le perdite per cui piangere.

Théoden, Forlong, Grimbold e Hirluin caddero in battaglia, e la disfatta di Gondor, che Sauron gli aveva suggerito attraverso il Palantìr, spinse il Sovrintendente Denethor al suicidio durante l’assedio.

Una pioggia grigia calò sulla città e sulle pianure al termine della battaglia, spegnendo molti incendi — con grande sollievo per gli abitanti — anche se di gran parte del livello inferiore non restava che un cumulo di rovine fumanti.

Nonostante le pesanti perdite, l’arrivo dei rinforzi dai feudi del sud permise a Gondor di mantenere, dopo l’assedio, una guarnigione più ampia di quella iniziale. E “non pochi erano caduti — celebri o ignoti, capitani o soldati — poiché fu una grande battaglia, e nessun racconto ne ha mai narrato il conto completo.

La vista di così tanti corpi straziati strappò lacrime agli occhi stanchi di Merry. E quel giorno Aragorn entrò per la prima volta in città dopo molto tempo, seppure in incognito, e nelle Case di Guarigione mostrò a Ioreth e a un algido Custode che le mani di un Re sono mani di guaritore, salvando Merry, Éowyn e Faramir dall’alito nero di Mordor.

Molte decisioni furono prese nelle ore che seguirono, che portarono alla decisiva Battaglia del Morannon, combattuta di fronte ai cancelli stessi della Terra Nera. Ma solo 7.000 cavalieri seguirono Aragorn figlio di Arathorn alla partenza alla volta di Mordor due giorni dopo.

 

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