LINGUE ELFICHE/51.5 - Grammatica Quenya ~ EXTRA: il condizionale

La scorsa volta abbiamo lasciato in sospeso la questione di come rendere in Quenya modi verbali dell’italiano come il congiuntivo e il condizionale.

Intanto è d’uopo chiarire fin da subito che in Quenya queste forme, se consideriamo strettamente la coniugazione, non esistono. Ma allora come rendere una frase che esprima incertezza, dubbio, irrealtà?

(Sarebbe interessante approfondire la ragione “culturale” per cui gli Elfi non necessitano di un modo a sé stante, e con voci verbali univoche, per conferire al discorso sfumature di questo tipo – e tuttavia sono in grado di renderle attraverso costruzioni perifrastiche – ma voglio tenermi questo argomento per una prossima volta.)

Per la grammatica Quenya, non solo non è contemplata una coniugazione propria atta a esprimere (ad esempio) il periodo ipotetico, ma non esiste alcuna distinzione tra quelli che per noi sono congiuntivo e condizionale. In effetti le forme che andiamo ad analizzare non costituiscono un analogo di nessuno di questi due modi del sistema verbale dell’italiano, ma si può parlare al massimo di forme “comparabili”.

Ecco perché si parla tendenzialmente di un generico “condizionale Quenya”, segnalato da specifiche particelle, non facenti parte di per sé del costrutto verbale (che si trova ancora una volta all’indicativo) e a questo non indispensabili, ma che conferiscono alle proposizioni le sfumature di incertezza / dubbio / irrealtà di cui sopra.

Sebbene sia impossibile tracciare un parallelismo soddisfacente tra queste particelle e le loro possibili traduzioni sintattiche in italiano (ovvero, per intenderci: quella che in italiano è una congiunzione potrebbe non esserlo in Quenya), possiamo per comodità dividerle, a seconda dell’uso, in:

  • congiunzioni condizionali, come “se”;

  • avverbi dubitativi, come “forse”.

Va da sé che in un periodo ipotetico le prime segnaleranno la proposizione subordinata condizionale (in italiano detta protasi e resa attraverso il modo congiuntivo), le seconde segnaleranno la proposizione principale (in italiano detta apodosi e resa al condizionale).

Una trattazione esauriente del cosiddetto “condizionale Quenya” è piuttosto complessa anche in quanto esso è stato soggetto, nel corso dei decenni, a una robusta revisione ed evoluzione concettuale da parte di Tolkien, a partire dalle particelle stesse, che sono cambiate diverse volte. Pertanto, strutturerò la disamina in diversi punti, ripercorrendo le varie fasi attraverso informazioni contenute nelle opere-chiave della storia esterna del Qenya/Quenya:

  • Nella Early Qenya Grammar (anni ’20) Tolkien fa ancora riferimento esplicito al “condizionale” come un “modo” del Qenya (pur se perifrastico – come del resto l’ottativo), e impiega per la sua formazione particelle dubitative (che noi potremmo rendere come avverbi, “forse”), le quali in alcun modo possono essere scambiate per congiunzioni, ad esempio “se”: ciò renderebbe evidente il loro ruolo di “formatrici di modo”.

    In questa fase (Early Qenya), dunque, il “modo condizionale” esiste ancora come modo a sé stante.

    [È comunque d’uopo utilizzare le virgolette, poiché Tolkien stesso inizia già a dubitare del parallelismo con le nostre lingue: il “condizionale” Qenya non è in nessun caso direttamente sovrapponibile con il conditional inglese “I would be”, né tantomeno al subjunctive “If I were”.]

    Ad ogni modo, queste particelle sono:

    • ki per esprimere una possibilità vicina, ovvero probabile. Non è necessario tradurla, ma ha pressappoco il significato di “forse” (“avverbio dubitativo”).

      Es.: hi·tule ki = “lei forse viene” = “potrebbe venire, verrebbe”.

    • nai per una possibilità remota. Mentre l’inglese distingue diversi gradi di probabilità attraverso l’uso dei verbi modali may o might (in questo caso ki = may e nai = might), l’italiano non possiede questa sfumatura e deve esprimerla necessariamente attraverso avverbi o perifrasi.

      Es.: hi·tule nai = “lei potrebbe (forse) venire, star venendo”;

      hi·túlie nai = “lei sarebbe potuta venire = sarebbe venuta”;

      hi·tuluva nai = “lei potrebbe venire (prima o poi in futuro)”.

       

      La seguente particella invece non “regge” alcun modo, è semplicemente la congiunzione condizionale “se”.

    • mai per significare supposizione. Può essere appunto resa in italiano attraverso la congiunzione condizionale “se” o simili (“qualora”, “semmai”, etc.). Se precede un verbo coniugato al passato, introduce una proposizione condizionale della probabilità (in italiano al modo congiuntivo).

Es.: mai ni·tule, tu·tulil = “se io vengo, essi vengono”.

mai ni·tuluva, tu·tuluval ki = “se io verrò, essi verranno”.

*mai ni·túlie tu·túliel = “se io fossi venuto, essi sarebbero venuti”.

  • In Quenya Verb Structure (anni ’40) le particelle non sono più formatrici di un modo a sé stante. Ai fini del nostro discorso, potremmo considerarle elementi della proposizione che, associati al verbo all’indicativo, lo “trasformano” di sfumatura, rendendolo assimilabile al nostro condizionale. In questa fase (Middle Quenya) dunque il condizionale è stato abbandonato come concetto, e non verrà mai più ripreso da Tolkien.

    • ai Rafforzativo della congiunzione qe =“se” (vd. oltre). È la particella per la possibilità più vicina (grado di possibilità). A volte fusa a qe in aiqe, a volte posposta.

      Es.: qe (ai) e·tule, (san) inye tule yú = “se venisse io verrei”.

      aiqe e·kestuvan ni·tuluva = “se me lo chiedesse, io verrei”.

    • au(ve) Sostitutivo della congiunzione “se”. È un equivalente dell’espressione “se solo”. Viene utilizzata per la possibilità più remota o per ipotesi (o auguri) controfattuali, ad esempio azioni non realizzatesi nel passato (grado di irrealtà).

      Es.: au túlielde (las)! = “se solo tu fossi venuto! (non è così)”.

      auve e·kestanen, au ni·túlie = “se me l’avesse chiesto, io sarei venuto”.

      NB: In quest’ultimo esempio il secondo au, pur introducendo il verbo dell’apodosi, non ricopre alcuna funzione dubitativa (non forma modo condizionale, per intenderci), ma ha un valore esclusivamente rafforzativo del primo au(ve), la congiunzione che regge la protasi.

    • qe è la “congiunzione condizionale” “se”.

Es.: qe e·kárie i kirya aldaryas, ni kauva kiryasta menelyas = “se avrà terminato di costruire la nave entro Martedì, potrò salpare Mercoledi”.

  • Nelle Late Notes on Verb Structure (1969), che stiamo qui prendendo a esempio dello stadio più maturo e “definitivo” del Quenya, per quanto questo sia possibile, vorrei qui analizzare le due congiunzioni condizionali “se”, che nel periodo ipotetico introducono la protasi. Sono le seguenti:

    • quĭ [< kwĭ] per esprimere supposizione di eventi considerati certi, in quello che in italiano sarebbe un periodo ipotetico della realtà (1° tipo). Esprime un “se non enfatico”, quasi interscambiabile con “quando” (che in Quenya si esprime con ).

      Es.: qui tulis, caruvan ahtumat = “se lei viene preparo la cena”.

      yá hríve menë, ringa ná = “quando arriva l’inverno fa freddo”.

    • quí(ta) [< kwí(ta)] per esprimere supposizione, utilizzato per eventi meno probabili o addirittura controfattuali (per la quale è preferita la forma lunga quíta) – quindi, per intenderci, periodo ipotetico della possibilità o dell’irrealtà.

      Es.: quí tuluvas, caruvan ahtumat “se lei venisse, preparerei la cena”.

      quíta lá túles, anaien raica “se lei non fosse venuta, mi sarei arrabbiato”.

      Si noti che mentre il primo esempio esprime un evento possibile ma remoto, il secondo esempio esprime un evento controfattuale, irrealizzabile o perché impossibile o perché non verificatosi nel passato. Il significato di quíta è dunque un “se enfatico”.

      Si potrebbe tradurre dunque con “supponiamo che”, “presumibilmente”, e introdurre nel migliore dei casi azioni ritenute possibili ma improbabili.

    • Esiste anche un uso alternativo di quí, attestato nella seguente frase:

carë mára quíta tyarë naxa = “fare il bene può causare il male”.

Apparentemente Tolkien ha voluto in questo caso adoperare quí come particella che regge l’apodosi (ovvero, in italiano una frase al condizionale) e non come congiunzione condizionale “se”. Tuttavia a un’analisi più attenta ci accorgiamo che il significato di quíta in questo caso è assimilabile a quítas < quíta sa = lett. “se ciò”, e può essere dunque trattata alla stregua di un inciso.

Dunque la frase assumerebbe pressappoco il significato di

Fare bene (nel caso) causa male.

Questa scelta, che comunque risulta attestata in un singolo caso (e costituisce dunque eccezione) può essere stata determinata dall’intenzione di semplificare la frase che altrimenti farebbe uso del verbo ecë “esser possibile” (lett. “essere aperto a”):

carien mára ecë tyarë naxa = lett. “a fare il bene è aperta la possibilità di causare il male”

dove carien sarebbe il gerundio declinato al dativo del verbo car-.

Chiariamo ancora meglio questo caso particolare attraverso una frase più diretta, in cui a essere coniugato al dativo è il pronome personale ni “io” = nin:

Ecë nin tyarë naxa = “mi è possibile causare il male”.

Ni quí tyarë naxa = “io posso causare il male”.

Sia il gerundio sia i pronomi avranno spazio in futuro su questa rubrica.

***

Dopo aver analizzato le due particelle che il Quenya maturo utilizza per le congiunzioni condizionali, facciamo ora una rassegna di alcuni altri casi di ipotesi, e relative concordanze tra tempi verbali:

      • Periodo ipotetico della realtà o della possibilità: il verbo della protasi si troverà coniugato rispettivamente all’indicativo aoristo o futuro, quello dell’apodosi sempre al futuro.

        Es.: qui tulis, inyë tuluva = “se viene, vengo anch’io”.

        quíta tuluvas, inyë tuluva = “se venisse, verrei anch’io”.

      • Per affermazioni generiche sempre valide si userà in entrambe le proposizioni l’aoristo.

        Es.: quíta nailyë Nauco, lá carilyes = “se tu fossi un Nano, non lo faresti”.

      • Per ipotesi di fatti immaginati nel presente immediato si userà in entrambe le proposizioni il presente semplice.

        Es.: quíta nalyë (sí) pó Moringotto, mana cáralyë? = “se tu ora fossi dinanzi a Morgoth cosa faresti?”

      • Per ipotesi irreali relative ad azioni conclusesi nel passato (o in un futuro anteriore) si userà il perfetto nella protasi e l’aoristo (o il futuro) nell’apodosi.

        Es.: quíta ifíriel, lá polilyë quetë = “se tu fossi morto, non potresti parlare”.

        quíta issë acáries nó tá, úva maurë sa inyë carë sa = “se per allora (in futuro) egli l’avesse fatto, non ci sarebbe bisogno che lo faccia io”.

         

    • Infine trattiamo la particella dubitativa [< ].

      Es.: cé nauva = “potrebbe essere” = “sarebbe”.

      Pur non formando modo condizionale da un punto di vista strettamente grammaticale, + indicativo dà luogo a una sorta di “condizionale di possibilità”. Si tratta di un condizionale “assoluto”, ovvero tendenzialmente sciolto da periodi ipotetici (sebbene possa farne parte in qualità di apodosi).

      Come accennato all’inizio, e come si può vedere dall’esempio qui sopra, il Quenya esprime il “condizionale” non tramite una voce verbale univoca, bensì attraverso una perifrasi modale, dal significato comparabile.

      Questo sistema suggerisce un possibile parallelismo con il Greco Antico e l’ottativo: esattamente come l’ottativo Greco, l’ottativo Quenya, come abbiamo detto nello scorso appuntamento, esprime augurio, desiderio, etc.

      Es.: ποιοην (poiòiên) = “che io possa fare!”

      nai caruvan! = “che io possa fare!”

D’altro canto, una voce verbale dell’ottativo Greco, seguita dalla particella ἄν (an), assume un significato di potenzialità, eventualità, esattamente come una voce indicativa Quenya preceduta da :

Es.: ποιοην ἄν (poiòiên an) = “io potrei fare” = “io farei”.

cé caruvan = “io potrei fare” = “io farei”.

cé caruvalyes? = “potresti farlo?” = “lo faresti?”

Questi esempi ci aiutano a capire che tanto il Quenya quanto il Greco esprimono dubbio o possibilità con le forme a disposizione in ciascuna lingua, ed è in una traduzione meno letterale che si dà un corrispondente del nostro condizionale.

********

A proposito di traduzione meno letterale, e a ulteriore riprova del ventaglio di varietà e possibilità offerte dal Quenya, vorrei proporre un multiplo esempio su cui riflettere, tratto da un saggio tardo sulla negazione, di cui stralci molto significativi sono riportati in Vinyar Tengwar #42:

  • lá karita i hamil mára alasaila (ná), lett. “non fare ciò che ritieni giusto (è) non-saggio = poco saggio”;

  • lá karitas, navin, alasaila ná, lett. “non fare ciò, io penso, è poco saggio”;

  • lá karitas alasaila ké nauva, lett. “non fare ciò sarebbe poco saggio”.

Sebbene solo l’ultima frase suggerita da Tolkien contenga la particella [> ], è immediatamente chiaro che anche il verbo “essere” ná, coniugato all’indicativo, delle altre due proposizioni potrebbe essere reso in italiano, a senso, con un condizionale, essendo il significato meno letterale della frase il seguente: “Evitare di fare ciò che ritieni giusto sarebbe poco saggio / potrebbe rivelarsi poco saggio”.

In ultimo, nel secondo esempio, è l’intercalare navin “io penso, ritengo”, a conferire il senso di incertezza e probabilità, e ciò escluderebbe che il tono della frase possa essere “all’indicativo”.

Ma, come abbiamo detto, stiamo parlando di sfumature che, laddove in italiano esprimeremmo compiutamente con un verbo a sé, del tipo “sarebbe, avrebbe”, per gli Elfi è evidentemente meno urgente rendere.

Tra le ragioni, sicuramente il fatto che, essendo pressoché immortali e vivendo all’interno di un ciclo vitale molto più esteso e “ripetitivo” del nostro, essi contemplano possibilità ed eventualità in maniera sensibilmente diversa dalla nostra, meno netta e meno definitiva.

Insomma, vari modi di esprimere un atteggiamento comunicativo, un timbro della frase, che denotano le differenze sintattiche ma anche culturali e di ragionamento sottese da diversi modi di esprimersi.

Come si può vedere il discorso potrebbe essere esteso ancora di più!

Bisogna sempre conto che non si sta parlando di un sistema univoco, coniato in un’unica versione o in un’unica soluzione (!), ma di un “palinsesto linguistico”, in cui abbiamo regolarmente a che fare con regole dell’Early o del Middle Qenya che “interferiscono” nella nostra ricostruzione dello scenario più recente e attendibile. Tuttavia queste regole (sulle quali il materiale attualmente pubblicato è in effetti più copioso che sul Late Quenya) a volte costituiscono un’utile base di confronto, che fornisce i presupposti per ricostruzioni e ipotesi plausibili, laddove Tolkien sembra aver preservato forme e principi in grado sufficiente anche negli stadi successivi della creazione linguistica.

***

Due draghi in un’illustrazione di J. R. R. Tolkien

Nel prossimo appuntamento daremo uno sguardo agli equivalenti dei modi indefiniti, vale a dire quei “modi” (impropriamente detti tali) che in italiano non sono riferiti a nessuna persona grammaticale, ma sono utilizzati ad esempio in proposizioni subordinate, perifrasi progressive, o accompagnate da verbi servili o modali. Vedremo che in Quenya “modi” come l’infinito o il gerundio assolvono un compito leggermente diverso, comportandosi il più delle volte come “sostantivi verbali”, in funzione di oggetto o di soggetto a seconda dei casi, e dando così luogo a costruzioni impersonali.

Discorso a parte meriteranno i participi, che nel Quenya costituiscono una parte fondamentale del sistema verbale, a causa della grande varietà e duttilità di accezioni che ricoprono, e della vasta gamma di tipologie (attivo, passivo, perfettivo/aggettivale; ciascuno di essi può essere “coniugato” in diversi tempi verbali e coadiuvare così la formazione di perifrasi progressive, di subordinate implicite, e ovviamente dei tempi composti).

Come sempre, ringrazio Simone Lapan per la consulenza linguistica e il contributo a dir poco fondamentale alla stesura di questo articolo.

Bibliografia:

  • Parma Eldalamberon XIV, Early Qenya Grammar (2003) ed. by Wynne, Gilson, Hostetter, Welden, Smith.

  • Parma Eldalamberon XXII, Quenya Verb Structure, Late Notes on Verb Structure (2015) ed. by Gilson – Smith.

  • Vinyar Tengwar #42, Negation in Quenya (2001) ed. by Bill Welden.

  • Vinyar Tengwar #49, Eldarin Hands, Fingers & Numerals (2007) ed. by Patrick Wynne.

  • Le Lingue degli Elfi della Terra di Mezzo, Volume II: L’arte della parola nelle opere di Tolkien (2018) di @Gianluca Comastri (Il Quenya, 3.6 Morfologia: i verbi).

  • Lingue Elfiche – Quenya (2002) di Edouard J. Kloczko (Grammatica descrittiva del Quenya, III. Morfo-sintassi del Quenya: il verbo e la coniugazione).

Sitografia:

-Rúmil

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