SÔVAL PHÂRË – (La“Lingua Comune”) ~ Rubrica sulla Traduzione in Tolkien - EXTRA: Autorialità e collettività nell’idea tolkieniana della letteratura

Cari amici, ben ritrovati al consueto appuntamento con Sôval Phârë, la rubrica dedicata alla traduzione nell’opera letteraria tolkieniana.

Nel corso dello scorso appuntamento abbiamo introdotto un nuovo percorso di disamina, dall’argomento traduzioni straniere delle opere di Tolkien, e per farlo abbiamo, come d’abitudine, preso spunto dalle sue lettere.

In particolare abbiamo riportato una lettera (n° 188) ai suoi editori, in cui il Professore a un certo punto, in riferimento alle eventuali “eccessive libertà” da parte dei traduttori (il precedente era la traduzione svedese dello Hobbit, “Hompen” [1947]), si diceva “geloso” del testo del Signore degli Anelli, e che non avrebbe approvato modifiche, riarrangiamenti, tagli al testo, se non effettuati sotto la sua diretta supervisione.

Ho già commentato che questa richiesta mi sembra non solo legittima (quale autore prenderebbe di buon grado un’alterazione del proprio testo?), ma nel caso di Tolkien particolarmente giustificabile, in quanto lui stesso era ben conscio che una parte importante della cifra dell’opera “Signore degli Anelli” risiedesse nella sua forma linguistica, nelle sue peculiarità formali e stilistiche.

E dunque, per preservarne il valore letterario anche in trasposizioni in altre lingue si rende necessario un lavoro perfino più attento e rigoroso del solito, ad esempio sul rapporto tra poesia e prosa, sulla resa dei nomi propri, sulla varietà dei registri, e infine ovviamente, come è stato già esposto in questa rubrica, sulla natura composita del testo, in cui va dato conto del particolarissimo statuto del narratore leggendario, della molteplicità di punti di vista, delle relazioni che intercorrono tra i diversi codici linguistici utilizzati come “adattamento” della lingua Secondaria dello pseudobiblìon.

Tutte queste caratteristiche, nella loro combinazione e compresenza, rendono Il Signore degli Anelli un romanzo oserei dire unico, e costituiscono altrettante complicazioni per il traduttore di turno, il quale, se non opportunamente edotto o consapevole riguardo la sfida che gli si presenta, rischierebbe di consegnare al proprio pubblico di riferimento (quello di lingua nella quale lui traduce) un testo contraffatto, semplificato, banalizzato, o in generale non rispondente all’originale sotto più di un aspetto.

Assodato che la “gelosia” di Tolkien fosse in questo caso ben fondata, sappiamo che in realtà il nostro buon Professore ha fatto seguire a questa sua offerta di “rendersi utile”, al fine di avere delle buone traduzioni, atti di chiarificazione e approfondimento estremamente generosi: la “Guida ai nomi” è senz’altro uno di questi. Se oggi sappiamo così tanto su ciò che compone concretamente la lingua del SdA e delle altre sue opere lo dobbiamo proprio all’incredibile lavoro di esegesi che lui stesso ha applicato ai propri scritti. Come lui stesso scrive, “per problemi come questi […] l’autore sarebbe la più soddisfacente, e la più rapida, fonte di informazione”. Possiamo ben dire, avendo oggi in mano non solo il testo, ma anche le informazioni aggiuntive contenute nella History (dove le info e gli approfondimenti etimologici si sprecano), che questa “promessa” è stata mantenuta.

Rilievo con Omero e una musa (1755-1765), disegno di Giovanni Domenico Campiglia su un’opera originale di Antonio Capellan

Ma vorrei adesso un attimo deviare dalla fattispecie del testo, e dall’aspetto linguistico in sé e per sé, e provare ad argomentare, come personalmente ritengo, che Tolkien si sia dimostrato, nel complesso, tutto il contrario di un “autore geloso” della propria opera, se non in senso assolutamente positivo e costruttivo.

Egli era indubbiamente un intellettuale che sapeva con una certa (a tratti impressionante) precisione cosa voleva comunicare, quale idea della letteratura far passare, anche attraverso i dettagli e la cura infinitesima che sapeva riversare nei suoi scritti; tuttavia non ha mai considerato Il Signore degli Anelli o le altre sue opere come un possedimento personale, né come un fatto esclusivamente individuale.

A dimostrarlo ci sono le sue stesse parole, attraverso il celebre passo della Lettera 328 a Carole Batten-Phelps:

Naturalmente Il Signore degli Anelli non mi appartiene. È stato portato a termine e ora deve andare per la sua strada, nel mondo, benché sia naturale che io provi molto interesse per le sue fortune, come un genitore che si interessa ad un figlio. Mi conforta sapere che ha dei buoni amici che lo difendono contro la cattiveria dei suoi nemici. (Ma gli sciocchi non sono tutti nel campo avverso).

Per quanto possa sembrare impertinente o banale, e forse lo è, rintracciare in queste parole un collegamento con il principio barthesiano/echiano della “morte dell’autore”, bisogna pur tener conto di ciò che lo stesso Tolkien ha affermato nella sua vita, esprimendosi riguardo alle proprie opere e alle loro possibili interpretazioni. Abbiamo già riportato in questo post la sua idea sulla distinzione tra “allegoria” e “applicabilità”.

Ein Schiftsteller wird vom Tod geholt. Aus einem Totentanz, “The dance of death: Death finds an author writing his life” (1827), litografia a colori di Edward Hull

L’“ansia” di molti lettori di “scoprire la giusta interpretazione” di un testo, di risalire al pensiero dell’autore (il quale avrebbe quindi… “sfruttato” la storia per nascondervi le sue opinioni personali?!), è molto più incline a procedere per allegorie, appunto, per chiavi interpretative “pre-confezionate”, in cui precisi significati sono veicolati attraverso un sistema di simboli e corrispondenze (in riferimento all’attualità, a una dottrina religiosa, a una corrente filosofica, a una linea politica, etc), e bisogna solo “beccare” quelli giusti.

Tolkien era di diverso avviso: l’allegoria “risiede nell’intenzionale imposizione dell’autore”, e, assegnando al testo un’unica interpretazione corretta, gli impone un limite non da poco.

Al contrario l’applicabilità (purché sia effettuata, chiaramente, entro certi limiti dati dal contesto, dalla comprensione del livello letterale, della buona fede di chi “applica”) “risiede nella libertà del lettore”. Una libertà responsabile, come sempre la libertà dovrebbe essere, in cui l’esperienza di un testo entra a far parte del percorso di vita del lettore, il quale non può che “applicare” quella storia al suo vissuto, assimilare ciò che di quella storia è realmente utile al proprio percorso individuale. Affinché non resti lettera morta, ma continui a “dar frutto” e a far parte del bagaglio di ciascuno.

“Applicare” non deve essere inteso come “sovrascrivere” (è l’allegoria quella che sovrascrive il senso letterale!): per la sua stessa natura “soggettiva”, il risultato di questa applicazione è separato dal livello letterale dell’opera, non costituisce un’“aggiunta apocrifa”, non è necessariamente valido per chiunque, ma è legittimo per ciascuno.

Mi verrebbe da dire che la letteratura serve in fondo a questo. Ci scambiamo segni, ci stringiamo intorno a dei focolari (i testi), per capire meglio la nostra natura, e come meglio affrontare la vita.

La visione, invece, di una letteratura come cifrario, in cui l’autore camuffa la propria visione del mondo, magari rivestendola di Elfi Nani Orchi, senza esporsi direttamente su ciò che pensa davvero, ma dispensando pillole “esoteriche”, questa visione, dico, mi sembra molto più sciatta e deprimente.

Tolkien, a causa dei suoi studi sulla letteratura antica e sulle sue diverse forme di fruizione, era ben consapevole del carattere sostanzialmente collettivo della letteratura, della sua natura universale (ovvero basata sulla “condivisione” di significati) e tradizionale (ovvero basata sulla loro “trasmissione” intergenerazionale). Ha mostrato, attraverso l’esempio della sua attività di narratore, di voler riaffermare un’idea antica, “originaria”, della letteratura, in cui i testi non sono affatto delle “verità” calate dall’alto, da un sedicente autore aureolato.

Un’idea della letteratura basata su queste premesse coincide giocoforza con un’idea anti-autoritaria dell’autorialità.

È pur vero, come scrive lo stesso Tolkien nel saggio Sulle Fiabe, che “parlando di un Calderone, non possiamo dimenticare del tutto i Cucinieri. Molte sono le cose dentro il Calderone, ma i Cucinieri non vi immergono il mestolo alla cieca.”: dalla grande “pentola di minestra” della Fiaba sono pur sempre i “cucinieri”/Autori che devono selezionarne le “ossa” e gli altri ingredienti, gli elementi che vi sono finiti dentro per millenni, per cavar fuori la loro storia. Il loro contributo è fondamentale, altrimenti quella minestra sarebbe impossibile da gustare, sarebbe un tutt’unico indistinto. Tuttavia l’Autore non è il “creatore” della minestra, non è colui che ha procurato gli ingredienti in primo luogo, ma “soltanto” colui che ce l’ammannisce. Dentro il Calderone ci sono “molte cose più antiche, più possenti, più belle, comiche o terribili” rispetto a qualunque possibile contributo individuale, a qualsiasi figura storica rielaborata dalla fantasia, a qualsiasi “novità letteraria”; e tutto ciò costituisce un patrimonio inestimabile, “somministrato” dall’Autore secondo il suo gusto e la sua personale selezione.

Questa visione della figura dell’autore è in assoluta continuità con quella che intuiamo leggendo i proemi dei poemi epici antichi: un tramite, un canale di diffusione di qualcosa, che può essere o meno “ispirato dalla Musa” ma sicuramente ci riguarda tutti.

Queste due cose (importanza e relatività del ruolo dell’autore) non sono affatto in contraddizione tra loro: molto spesso Tolkien ha espresso la propria ammirazione, ad esempio, per l’acume e la capacità rielaborativa dell’Anonimo del Beowulf.

Tolkien non era affatto per l’eliminazione dell’istituzione dell’autore, o per un ritorno a un modello di fruizione letteraria non mediata, come del resto non lo erano neanche Barthes ed Eco! Egli era semmai consapevole della finitezza dell’autore, dell’inevitabilità del pluralismo nell’interpretazione di un’opera, dell’impossibilità concreta dell’autore di imporre un singolo punto di vista.

Ammesso, poi, che sia corretto farlo! (Tolkien era assolutamente contrario, come abbiamo letto; in altre parole, non era un illuso). Infinite evidenze, tra cui quel filone di teoria della letteratura sul cosiddetto ritorno del represso, ci mostrano che il “senso” profondo di un’opera è irriducibile alla sola visione del suo autore, e vi possono essere letture ulteriori che emergono unicamente all’interno dell’agone intersoggettivo dell’attribuzione dei significati, per usare una terminologia peirciana. La grande letteratura riesce a veicolare, in certi casi, messaggi anti-razzisti attraverso l’opera di autori con idee politiche tendenzialmente razziste, messaggi tolleranti attraverso l’opera di autori meno tolleranti…

Nel momento stesso in cui un autore “mette in scena” una situazione e dei personaggi, la condizione di “simulazione realistica” offerta dalla forma narrativa tende a “correggere” eventuali visioni preconcette o ideologiche eventualmente presenti nella visione preliminare: la realtà “bussa alla porta” attraverso la finzione. Ciò che era stato represso ideologicamente ritorna pragmaticamente nelle vite dei personaggi, nelle situazioni riportate, nell’andamento generale della storia.

Chiaramente non stiamo parlando di una legge, o di qualcosa che possa essere verificato empiricamente e oggettivamente, tuttavia gli esempi si sprecano, specialmente in quei filoni della letteratura nei quali ci si è interrogati sul rapporto tra identità/alterità, sugli “sconfinamenti”, sulla scoperta dell’altro, sul crollo non preventivato di steccati e pregiudizi (Kipling, Melville, Fitzgerald, Faulkner, Hemingway, Conrad, De Foe, Stevenson, e ancora Lévi-Strauss, Said, Houellebecq e tanti altri).

Non sempre i nostri ragionamenti, ostacolati dalle ideologie di cui siamo a volte imbevuti, arrivano alle stesse verità che ci vengono dischiuse da una buona storia.

Come diceva proprio Umberto Eco, di ciò che non si può teorizzare, si deve narrare!

-Rúmil

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