Cari amici, ben ritrovati al consueto appuntamento con Sôval Phârë, la rubrica dedicata alla traduzione nell’opera letteraria tolkieniana.
Continuiamo con l’analisi di alcuni passi dalle Lettere, nello specifico leggeremo:
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nuovamente una lettera a Hugh Brogan, sempre del periodo appena precedente alla pubblicazione del SdA;
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un breve stralcio da una lettera del medesimo periodo, in cui si parla diffusamente della missione di Gandalf e si cita incidentalmente la traduzione di Istari.
Senza ulteriori indugi, passo agli estratti, che successivamente commenteremo:
[1]. Lettera 151 a Hugh Brogan, 18 settembre 1954
[…] Il fatto che tu preferisca goblin a orchi implica un discorso più ampio ed è anche questione di gusti, e forse c’è della pedanteria storica da parte mia. Personalmente preferisco orchi (dato che queste creature non sono goblin, nemmeno i goblin di George MacDonald, a cui assomigliano fino a un certo punto). Inoltre ora mi rammarico profondamente di aver usato «elfi», benché si tratti di una parola abbastanza adatta nel suo significato antico e originario. Ma il disastroso svilimento di questa parola, in cui Shakespeare ha giocato un ruolo imperdonabile, l’ha caricata di significati deplorevoli, che tuttavia sono troppo radicati per essere superati. Spero di essere in grado di includere nelle Appendici al vol. III una nota Sulla traduzione in cui l’argomento dell’equivalenza e del mio uso dei termini possa essere chiarito. La mia difficoltà, nel momento in cui ho cercato di presentare leggende e storie di «un’epoca dimenticata», è stata che tutti i termini specifici erano in lingua straniera e che nessun equivalente preciso esiste in inglese. […]
[2]. Lettera 156 (abbozzo) a Robert Murray, S. J., 4 novembre 1954
[…] gli «stregoni» non sono affatto «ambigui». Non i miei. Io ho la difficoltà di trovare nomi inglesi per creature mitologiche che hanno altri nomi, dato che la gente non accetterebbe una sfilza di nomi elfici, e preferisco che leggano delle mie leggendarie creature con i nomi tradotti male che fanno sorgere false associazioni piuttosto che non leggano affatto.
Anche i nani non sono in realtà dwarfs germanici (Zwerge, dweorgas, dvergar), e io li chiamo dwarves perché questa differenza sia chiara. Non sono per natura cattivi, né necessariamente ostili, e nemmeno una specie di gente bizzarra generata dalla roccia; ma un tipo di creature razionali incarnate. Istari viene tradotto con «stregoni» a causa della connessione di «stregone» con «saggio», e quindi con consapevole e dotato di conoscenza. Sono in realtà emissari del vero Occidente, e quindi di Dio, mandati proprio per rafforzare la resistenza dei «buoni», quando i Valar si accorgono che l’ombra di Sauron sta di nuovo prendendo forma.
Le considerazioni che compie Tolkien in questi due passaggi sono piuttosto pregne di spunti, e danno conto della sua visione, alquanto originale. Innanzitutto il riferimento a Shakespeare è interessante: in almeno altre due occasioni nelle Lettere Tolkien fa riferimento alla sua antipatia per come gli “elfi” di Shakespeare avessero irrimediabilmente traviato l’immaginario collettivo su queste creature. Nella Lettera 163 a W. H. Auden sostiene addirittura di “detestare cordialmente” il celebre drammaturgo! Forse anche a causa dei suoi “elfi”? Molto probabile.
Mentre nella fondamentale Lettera 131 a Milton Waldman, in una nota a piè di pagina, sempre per spiegare il proprio utilizzo “inesatto” del termine “elfi”, scrive:
Sottintendendo l’antico significato della parola, che restò in vigore fino a Spenser; maledizione a Will Shakespeare e alle sue dannate ragnatele [ < cobwebs].
[Nota: la traduzione delle Lettere in mio possesso (La realtà in trasparenza, ed. 2002) rende “cobwebs” con “trappole”, tuttavia ritengo che in questo caso sia più pertinente una traduzione letterale come “ragnatele”, in quanto è molto probabile che nel commento sarcastico del Professore vi sia anche un riferimento al personaggio Cobweb (“Ragnatela”) da Sogno di una notte di mezza estate, e al fatto che le “storie di fate” à la Nymphidia di Drayton – di cui Tolkien parla per esempio anche nel saggio Sulle Fiabe – siano costellate di questi dettagli stucchevoli e leziosi, di queste “bellurie”, come le chiama ironicamente, probabilmente determinate dalla “logica delle cose” tipica dell’Inghilterra, “paese in cui l’amore per il delicato e il grazioso ha più volte fatto capolino nell’arte”.
Ecco perché calici di primula, occhi di formica, fili d’erba, ragnatele, forfecchie, fate-fiori, spiritelli alati e antennuti hanno popolato le fiabe popolari inglesi per diversi secoli; e Tolkien, che invece ha in mente gli elfi del folklore antecedente a queste influenze straniere (soprattutto francesi), non può che detestarli.]
Ad ogni modo, è interessante osservare, proprio grazie a questi riferimenti a Spenser e Shakespeare, come Tolkien identifichi un periodo ben preciso, a cavallo tra questi due autori (e a causa dell’influenza del secondo), in cui la tradizione folklorica e mitologica, nonché l’uso dei termini che designano le sue creature, avrebbero attraversato una sorta di “corruzione”.
In questo senso The Faerie Queene di Edmund Spenser sembra essere identificato, anche in Sulle Fiabe, come uno degli ultimi esempi “virtuosi” nella storia della letteratura inglese a questo riguardo.
Ecco perché, come leggevamo la scorsa volta, Elves risulta essere una traduzione “forse non molto calzante, ma originariamente abbastanza buona”: si richiama a una tradizione letteraria precedente a quella “mainstream” ai tempi di Tolkien, tradizione che lui vuole riportare in auge, risalendo al significato originario del termine, e all’immaginario correlato.
Questa tradizione nel corso del XX secolo fu ancora una volta trasformata, grazie all’uso di fairy ed elf nelle traduzioni di opere letterarie in epoche più recenti, assorbendo, come ci dice in una nota sempre di Sulle Fiabe, l’atmosfera dei racconti tedeschi, scandinavi e celti, e molte delle caratteristiche degli Huldufólk [Islanda, Fær Øer], dei Daoine Sidhe [Irlanda] e dei Tylwyth Teg [Galles], tutte versioni molto antiche di “elfi” presso questi popoli, nessuna perfettamente coincidente con l’idea che aveva in testa Tolkien, evidentemente.



Queste continue traslazioni di significato (e questo è solo un esempio tra i tanti possibili!) per le accezioni di elf ci fanno comprendere la “preoccupazione” di Tolkien: i suoi Elfi “precedono” (anche se non necessariamente in termini cronologici) tutte queste varianti, essendo più simili alla sensibilità anglosassone, dal suo punto di vista la più autenticamente inglese, e ancora scevra da queste contaminazioni culturali.
Oltretutto la Terra di Mezzo è concepita per essere una versione “preistorica” dell’Europa! Dunque l’accezione del termine “elfo” più adatta alla quale richiamarsi deve necessariamente esserlo altrettanto, e per di più, perché sia adatta a una “mitologia per l’Inghilterra”, deve contenere quel carattere di “englishry” tanto amato dal Professore.
Ovviamente tutto questo non è affatto dettato da un rifiuto di queste contaminazioni per se, piuttosto da un gusto e da una scelta estetica causati innanzitutto dal desiderio di trovare creature che si attagliassero alle lingue fittizie preesistenti (le quali a loro volta andavano perfezionandosi e modificandosi, seguendo quel medesimo “gusto estetico”. Approfondiremo decisamente questo aspetto).
Nel secondo estratto preso in considerazione troviamo infine un concetto interessante: tradurre questi nomi si rende necessario pur di non inondare il lettore dei loro “veri” nomi nelle lingue di Arda, come abbiamo detto. Di primo acchito è molto più facile capire di cosa stiamo parlando, pur con un inevitabile lost in translation e una generale imprecisione, quando leggiamo Dwarves e Wizards, “Nani” e “Stregoni”, anziché le loro controparti elfiche Naugrim, Naucor, Istari, Ingolmor, etc, o perfino in altri idiomi non elfici come Khazad.
Chiaramente la parola più adatta a ritrarli è proprio quella parlata da loro stessi (o da altri personaggi di quell’universo, appunto: quasi ogni entità in Tolkien ha non un solo nome, ma una sfilza di nomi diversi a seconda di chi parla), ed è questo il motivo per cui le lingue fittizie hanno tanta parte nel Legendarium, banalmente.
La radice di Istar è il verbo Quenya ista- “sapere, conoscere”, esattamente come wizard risale, attraverso molti passaggi, alla radice Protoindoeuropea *weid- “vedere” e dunque per estensione “sapere, conoscere”. Perciò vi è sempre una ratio anche etimologica nella traduzione: il senso di avere un costrutto linguistico filologicamente coerente al suo interno è proprio quello di poter scomporre ogni lemma (e dunque anche ogni nome proprio) nei significati delle radici che lo compongono. Acquisire quel minimo di consapevolezza sulle lingue di Tolkien ci consente dunque, ormai è chiaro, di avere una “presa concettuale” più salda sulla narrativa, attraverso le storie che ciascuno di quei nomi, ciascuna di quelle parole, serba all’interno dei propri strati di significato.
Ultima considerazione, che qui accenniamo solamente: Tolkien fa riferimento alla natura dei suoi Nani come sensibilmente diversa rispetto a quelli del folklore nordico, l’abbiamo detto.
Le differenze di caratteristiche tra i dwarfs germanici (gli altri nomi che elenca, Zwerge, dweorgas, dvergar, sono semplicemente i termini corrispondenti in tedesco, anglosassone e norreno) e i suoi dwarrows > dwarves non si limitano a tratti fisici, ma anche caratteriali e culturali: i Nani di Arda “non sono per natura cattivi, né necessariamente ostili, e nemmeno una specie di gente bizzarra generata dalla roccia; ma un tipo di creature razionali incarnate”. È pur vero che, nelle prime fasi del Legendarium, come i Racconti Perduti e il Qenta, i Nani erano ancora molto più simili ai nani del folklore nord-europeo di quanto non sarebbero diventati nel SdA: sgradevoli, avidi, tendenzialmente ostili a Elfi e Uomini, indifferenti alle vicende del mondo al punto da risultare neutrali, e possibilmente corruttibili da Melko…
Tutto questo ci dà conto di un processo di “scoperta”, da parte di Tolkien, su “quali fossero i suoi Nani”. È possibile che i vecchi racconti facciano comunque parte della complessa struttura narrativa (composta da diverse versioni e diversi punti di vista) che abbiamo descritto nell’Evoluzione della Leggenda: leggende umane, racconti tramandati per via orale non proprio attendibili, deformazioni della realtà storica riferite da narratori inaffidabili o parziali… Nulla può essere escluso dalla “verità letteraria”. In quanto le forme precedenti dei racconti, anziché venire scartate, venivano da Tolkien riqualificate o derubricate, come dimostra questa frase dell’Appendice F, che parlando dei Nani aggiunge, quasi con nonchalance:
[…] non sono di natura malvagia, e pochi di loro servirono spontaneamente il Nemico, nonostante ciò che raccontavano le storie degli Uomini.
In effetti sappiamo che Tolkien trasformò a posteriori i Racconti in “tradizione umana”: del resto erano stati trascritti da Ælfwine! Una tradizione umana solo parzialmente illuminata dalla conoscenza “vera” e “scientifica” degli Elfi.
Ovviamente i Nani più simili alla “verità storica” sono quelli dello Hobbit e del Signore degli Anelli: certamente non esenti da difetti ma assolutamente non le creature infide e ciniche che popolano i racconti del folklore norreno, né le loro controparti presenti all’interno dell’Early Legendarium.
Per fare un esempio concreto di questa trasformazione: Mîm era un normale Nano nel Racconto di Turambar, e per di più molto più infame rispetto alla versione più tarda del Racconto dei Figli di Húrin! Nella quale diventa un Nanerottolo, della stirpe dei Nibin-noeg (dunque non più un Nano “purosangue”, anzi un reietto tra i Naugrim), e la sua caratterizzazione si addolcisce leggermente, rendendolo un personaggio quasi tragico.

L’argomento è ancora vasto, dunque dedicheremo il prossimo appuntamento a una postilla, in cui analizzeremo alcuni dei motivi per cui Tolkien abbandonò progressivamente (o dilazionò molto nell’uso) certe “scelte traduttive” (ad esempio gnome e fairy) per parole come Noldor, Quendi o Eldar.
Alla prossima!
-Rúmil