SÔVAL PHÂRË – (La“Lingua Comune”) ~ Rubrica sulla Traduzione in Tolkien - EPISODIO 8: “Approximate equivalents” (parte 2)

Cari amici, ben ritrovati al consueto appuntamento con Sôval Phârë, la rubrica dedicata alla traduzione nell’opera letteraria tolkieniana.

Proseguiamo la nostra disamina del concetto di traduzione per Tolkien attraverso due ulteriori estratti dalle Lettere.

I due brani scelti risalgono al periodo della stesura del Signore degli Anelli. È la fase della sua vita in cui Tolkien si profondeva molto volentieri in lunghe missive (celebre la Lettera 131 a Milton Waldman) in cui raccontava la propria mitologia ai suoi corrispondenti.

In questo caso prendiamo in esame un brano da una delle lettere indirizzate all’allora studente Hugh Brogan, con cui Tolkien intrattenne una corrispondenza in quegli anni (nella Lettera 118 gli invia gli auguri di Natale 1948 in Cirth e Tengwar); e un corposo estratto da una celebre lettera a Naomi Mitchison, una delle correttrici di bozze per la Allen & Unwin. Mitchison aveva ricevuto una copia dei primi due volumi del SdA e aveva posto a Tolkien una serie di domande sul romanzo, e Tolkien, com’era nel suo stile, imbastì una risposta più che soddisfacente, compiendo interessantissime digressioni su argomenti linguistici e approfondendo l’ambientazione “sottostante” al SdA, dando una serie di informazioni che all’epoca non erano che appannaggio di pochi, fortunati lettori delle stesure attualmente in corso del Silmarillion.

Hugh Brogan (1936-2019), storico e biografo britannico

[1]. Lettera 114 – 7 aprile 1948

Hugh Brogan aveva scritto al professore per complimentarsi per Lo Hobbit. Probabilmente rispondendo a una sua curiosità riguardo all’universo letterario complessivo, Tolkien scrive:

[…] Quello che davvero farebbe al caso tuo è Il Silmarillion, che è una storia degli Eldalië (o, tradotto approssimativamente, Elfi) dalla loro ascesa fino all’Ultima Alleanza, e della prima temporanea sconfitta di Sauron (lo Stregone): questo ti porterebbe quasi al periodo dello Hobbit. Sarebbero anche utili delle mappe, delle tavole cronologiche, e qualche informazione elementare sui linguaggi Eldarin (o elfici). Io ho tutte queste cose, naturalmente, che sono ben note ad una piccola cerchia di amici che comprende i miei figli (tutti ex allievi della Dragon School). Se troverò il tempo e il modo di riprodurli, o di riprodurne una parte, diciamo alla macchina da scrivere, e tu sarai ancora interessato a questo periodo così poco esplorato della preistoria, ti farò avere qualcuno di questi documenti.

Ritroviamo qui il tema della “traduzione approssimativa”, con un elemento nuovo: il termine Eldalië, un termine collettivo per riferirsi agli Eldar. È evidente che Tolkien avesse ben chiara, come abbiamo detto, la natura di queste creature. Fasi intermedie di questa presa di consapevolezza possiamo osservarle, nel corso dei decenni precedenti, grazie al progressivo abbandono dell’aggettivo elfin a favore di termini come elvish o elven: queste costanti modifiche di “scelte traduttive” derivavano dall’intento di distanziarsi sempre più dall’immaginario “elfico” tradizionale, tant’è che a un certo punto Tolkien abbandonò anche la dicitura fairies (fate) per riferirsi a loro.

Naomi Mitchison (1897-1999), poetessa e saggista britannica

[2]. Lettera 144 – 25 aprile 1954

[…] sto dedicando ogni momento libero a fare versioni molto succinte degli argomenti storici, etnografici e linguistici che possano apparire nelle Appendici. Se La interessa, Le manderò una copia (piuttosto buttata giù) del materiale che riguarda i linguaggi (e la scrittura), le popolazioni e la traduzione.

Quest’ultima mi ha dato molto da pensare. Sembra che raramente sia presa in considerazione dagli altri creatori di mondi immaginari, per quanto dotati come narratori (come Eddison). Ma io sono un filologo, e benché mi piaccia essere preciso su altri aspetti e caratteristiche culturali, non rientra nella sfera di mia competenza. Tuttavia il linguaggio è molto importante, perché la storia deve essere raccontata, e il dialogo tradotto in linguaggio; ma non poteva essere l’inglese il linguaggio delle persone in quell’epoca. Quello che ho fatto in realtà è stato identificare l’Ovestron o la diffusa Lingua Corrente della Terza Età con l’inglese; e tradurre ogni cosa, compresi nomi come «La Contea», che era in Ovestron in termini inglesi, con qualche differenza di stile per rappresentare le differenze dialettali. Linguaggi del tutto estranei alla Lingua Corrente sono stati lasciati da parte. Tranne che per alcuni frammenti nella Lingua Nera di Mordor, e un po’ di nomi e un grido di battaglia nella Lingua dei nani, questi sono quasi interamente elfici (Eldarin).

Tuttavia i linguaggi collegati all’Ovestron presentavano un problema particolare. Io li ho trasformati in forme di linguaggio collegate all’inglese. Dato che i Rohirrim sono presentati come nuovi arrivati dal Nord, e con un linguaggio arcaico tipico degli uomini e relativamente privo di influenze dell’Eldarin, ho trasformato i loro nomi in forme simili (ma non identiche) all’inglese antico. Il linguaggio di Dale e del Lagolungo, se riapparisse, assomiglierebbe più o meno allo scandinavo nei caratteri; ma è rappresentato solo da pochi nomi, specialmente quelli dei nani che venivano da quella regione. Sono nomi di nani in antico norreno. (I nani di solito tengono segreta la loro lingua natale, e usano nelle relazioni «esterne» quella della gente vicino alla quale si insediano; non rivelano mai i loro «veri» nomi propri nella loro lingua).

L’Ovestron o Lingua Corrente si suppone derivi dalla lingua umana Adunaic dei Numenoreani, diffusasi ai tempi dei re dai regni Numenoreani, e specialmente da Gondor, dove viene ancora parlata nella sua forma più elevata e più antica (una forma spesso usata dagli elfi quando ricorrono a questa lingua). Ma a Gondor tutti i nomi, tranne pochi di probabile origine preistorica, sono di forma elfica, dato che la nobiltà Numenoreana usava ancora una lingua elfica. Questo perché era stata alleata degli elfi nella Prima Età e per quel motivo le era stata assicurata Atlantis, l’Isola di Numenor.

Due delle lingue elfiche appaiono in questo libro. Si può affermare che esistono, dato che le ho create con una certa completezza, così come la loro storia e un resoconto della loro parentela. Sono intese (a) come europee nello stile e nella struttura (non nei dettagli); e (b) hanno una particolare gradevolezza. La prima non è difficile da acquisire; ma la seconda è più difficile, dato che le preferenze individuali, specialmente nella struttura fonetica dei linguaggi, variano ampiamente, anche quando sono modificate dai linguaggi imposti (comprese le loro cosiddette lingue madri).

In seguito mi sono sbizzarrito. Il linguaggio arcaico della tradizione è stato concepito come una specie di «elfico-latino», e trascrivendolo in un’ortografia molto simile a quella latina (tranne che la y è usata solo come consonante, come nell’inglese yes) la somiglianza con il latino balza all’occhio. In realtà si potrebbe dire che è stato creato su basi latine con altri due (principali) ingredienti che mi piacevano da un punto di vista «fono-estetico»: finnico e greco. Contiene tuttavia meno consonanti di quei tre. Questo linguaggio è l’alto-elfico o, con un suo termine, il Quenya. Il linguaggio corrente degli Elfi Occidentali (Sindarin o Elfi Grigi) è quello che si incontra di solito, specie nei nomi. Ha un’origine comune con il Quenya; ma modifiche sono state deliberatamente apportate per dargli un carattere linguistico molto simile (benché non identico) al gallese: perché quel carattere a me risulta, sotto alcuni aspetti, molto attraente; e perché mi sembra che ben si adatti al tipo «celtico» di leggende e storie narrate da chi lo parla. «Elfi» è una traduzione, forse non molto calzante, ma originariamente abbastanza buona, di Quendi. Vengono rappresentati come una razza all’apparenza simile (e ancora di più se si va indietro nel tempo) a quella degli uomini, e in tempi antichi della stessa statura. Non mi dilungherò qui sulle differenze che presentano rispetto agli uomini! Ma suppongo che i Quendi siano effettivamente in queste storie molto poco simili agli elfi e alle fate dell’Europa; e se dovessi razionalizzare, direi che rappresentano uomini con facoltà estetiche e creative molto potenziate, più belli e più longevi, e più nobili – i Primogeniti, destinati a dissolversi prima dei Successivi (gli uomini), e a vivere solo attraverso quella sottile discendenza sanguinea che si è mescolata a quella degli uomini che proprio grazie a questa discendenza si proclamavano «nobili».

Su questa lettera c’è così tanto da dire che certamente non esauriremo gli spunti in questo post, perciò tracciamo intanto alcuni riferimenti:

a. Teniamo presente che proprio in quel periodo Tolkien stava redigendo le Appendici! Da ciò che scrive possiamo quasi percepire l'”ansia” di condividere con qualcuno le proprie “scoperte”: sia nella lettera a Brogan sia in quella a Mitchison fa riferimento a mappe, tavole genealogiche, e altri materiali di “raccordo” tra Il Silmarillion e Il Signore degli Anelli; è evidente che sono anni di fermento concettuale e di evoluzione cruciale dell’impianto narrativo e linguistico. Alla luce di questo, non ci dovrebbe sorprendere leggere come Tolkien spieghi a Mitchison in maniera chiara tutto ciò che abbiamo esposto nel corso di questa nostra rubrica, tra cui la questione dell’adattamento dei linguaggi della Terra di Mezzo attraverso la ricerca di relazioni corrispondenti tra lingue del Mondo Primario (Ovestron = Inglese; Rohanese = Anglosassone; Daliano = Antico Norreno). In più aggiunge alcuni dettagli sulle origini dell’Ovestron, e sulla sua pratica più elevata e antica, presumibilmente più simile all’Adûnaico di quanto non fosse il dialetto hobbitish, da parte di Gondoriani ed Elfi. Vedremo in futuro di approfondire questo aspetto.

b. L’excursus su Quenya e Sindarin è di particolare interesse, in quanto Tolkien ci offre uno spaccato sul suo modus operandi da glossopoieta. Quanto abbiamo letto ci fa comprendere come egli amasse “ricombinare” creativamente elementi morfologici e fonologici dalle lingue del Mondo Primario, in maniera tale che le sue lingue non fossero direttamente e univocamente debitrici di una singola fonte facilmente riconoscibile: ecco perché tiene a specificare che le lingue elfiche sono “europee nello stile e nella struttura” ma “non nei dettagli”; che il Sindarin “ha un carattere linguistico molto simile (benché non identico) al gallese”); che nel Quenya “la somiglianza con il latino balza all’occhio”, ma contemporaneamente contiene istanze di (almeno) altri due codici: finnico e greco, scelti specialmente per la loro “fono-estetica” (caratteristica centrale per la sua “coniazione linguistica”: in questa stessa lettera lo rimarca più volte, parlando di “gradevolezza” e di “carattere attraente”).

Insomma: il gusto e la perizia nella creazione di lingue artificiali si misura, nel caso del “vizio segreto” di Tolkien, anche attraverso questa capacità di ispirarsi a fonti differenti, senza che sia quasi mai possibile risalire direttamente al dettaglio che l’ha ispirata, esattamente come per la narrativa, come dicevamo qualche post fa.

Non vi è la pretesa di creare qualcosa di nuovo, dal nulla per così dire, ma si opera per sub-creare a partire dalla materia prima, dagli “ingredienti”, come dice lui, già presenti.

Infine tutto ciò è messo in relazione, chiaramente, con la storia ed evoluzione delle lingue stesse. Quando nella lettera menziona il “resoconto della loro parentela” non sta parlando d’altro che del Lhammas! Ci troviamo negli anni ’50, dunque possiamo senz’altro affermare che questo scritto degli anni ’30, che abbiamo trattato in post precedenti, si attagliasse meglio alla fase precedente (Middle Period) che a quella durante la quale Tolkien scrive a Mitchison, ovvero la medesima del Signore degli Anelli. Tuttavia egli non ha alcun problema a riconoscere la “Relazione sulle Lingue” come base teorica fondamentale (seppur sicuramente da rivedere e aggiornare alla nuova concezione) del proprio costrutto linguistico.

Decisamente, un’ennesima dimostrazione della totale organicità ed estrema complessità dell’operazione linguistica tolkieniana.

-Rúmil

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