Cari amici, ben ritrovati al consueto appuntamento con Sôval Phârë, la rubrica dedicata alla traduzione nell’opera letteraria tolkieniana.
Come menzionato in precedenza, vorrei oggi trattare il tema della traduzione attraverso alcuni esempi dell’operazione di “adattamento” compiuta da Tolkien, utilizzando, come base del ragionamento, le sue stesse parole.
Ecco perché vorrei presentare alcuni estratti dalle Lettere, che successivamente commenteremo. Si tratta di un vero e proprio percorso, che continueremo anche nei prossimi appuntamenti di questa rubrica, in cui assisteremo a una progressiva presa di consapevolezza, da parte di Tolkien, sulla propria visione della complessa relazione tra le lingue del Mondo Primario e le lingue fittizie del Mondo Secondario, e su come i vari layer della traduzione esercitano un impatto sul senso profondo di queste storie.
Come si vedrà negli estratti che affronteremo, Tolkien non arrivò alla risposta definitiva sulla traduzione in un unica soluzione, né per quanto riguarda la natura dei nomi del proprio Legendarium, né per la loro eventuale resa in altri idiomi (“corollario” che tratteremo in seguito). Passo ora ai brani. Grassetto mio.
Lettera 17 (15 ottobre 1937, a Stanley Unwin)
[…] Nessun critico (che abbia letto il libro), sebbene tutti abbiano accuratamente usato la forma corretta dwarfs, ha fatto commenti sul fatto (del quale mi sono reso conto solamente attraverso le critiche) che io ho sempre fatto uso del plurale scorretto dwarves. Temo che si tratti proprio di un errore da parte mia, abbastanza scioccante per un filologo; ma dovrò continuare così. Forse al mio dwarf – dato che lui e lo Gnome sono solo traduzioni in equivalenti approssimativi di creature con nomi diversi e funzioni abbastanza diverse nel loro mondo – può essere concesso un plurale particolare. Il vero plurale «storico» di dwarf (come teeth di tooth), comunque, è dwarrows: una parola simpatica, ma un tantino troppo arcaica. Eppure quasi quasi avrei preferito aver usato la parola dwarrow. […]
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Lettera 25
Al direttore dell’«Observer», in risposta a un articolo scherzoso del 16 gennaio 1938 – firmato da un certo “Habit” – in cui si avanzavano ipotesi sulle origini del nome Hobbit e si chiedevano a riguardo lumi all’autore de Lo Hobbit, successo letterario di pochi mesi antecedente a questo scambio.
La risposta di Tolkien, che assecondava il gioco, ma approfittava per correggere alcune imprecisioni e soddisfare alcune curiosità, fu pubblicata nel numero del 20 febbraio.
[…] C’è la questione della nomenclatura. I nomi degli gnomi e quelli dello stregone vengono dall’Elder Edda. I nomi degli hobbit da fonti ovvie, adatte alla loro specie. La lista completa delle famiglie più agiate è: Baggins, Boffin, Bolger, Bracegirdle, Brandybuck, Burrowes, Chubb, Grubb, Hornblower, Proudfoot, Sackville, e Took. Il dragone ha come nome – uno pseudonimo – la forma passata del verbo germanico originario Smugan, stringersi per passare attraverso un buco: uno stratagemma filologico. Il resto dei nomi è del mondo antico e del mondo elfico e non è stato modernizzato.
E perché dwarves? La grammatica dice dwarfs; la filologia suggerisce che dwarrows sarebbe la forma storica. La vera risposta è che non ho saputo fare di meglio. Ma dwarves sta bene con elves; e, in ogni caso, elf, gnome, goblin, dwarf sono solo traduzioni approssimative di antichi nomi elfici per esseri che non hanno le stesse caratteristiche e le stesse funzioni.
Questi dwarves non sono proprio i dwarfs più conosciuti. Hanno nomi scandinavi, è vero; ma questa è una concessione editoriale. Troppi dei nomi nella lingua adatta a quel periodo potevano suonare allarmanti. La lingua degli gnomi era complicata e cacofonica. Persino i primi filologi elfi la evitavano e gli gnomi erano costretti a usare altre lingue, tranne che quando conversavano tra loro. Il linguaggio degli hobbit era considerevolmente simile all’inglese, come è logico attenderci: del resto, vivevano ai confini di zone selvagge e per lo più ne erano inconsapevoli. I loro cognomi sono per la maggior parte ben conosciuti e giustamente rispettati nella nostra isola come lo erano a Hobbiton e a Bywater.
C’è poi la questione delle rune. Quelle usate da Thorin e compagnia, per scopi speciali, erano comprese in un alfabeto di trentadue lettere (nella sua piena applicazione) simile, ma non identico, alle rune delle iscrizioni anglosassoni. Esiste indubbiamente una connessione storica tra i due alfabeti. L’alfabeto feanoriano, usato in quell’epoca, era di origine elfica. Appare nella maledizione iscritta sulla pentola d’oro nel disegno della tana di Smaug, ma è stato trascritto (può essere messo a disposizione un facsimile della versione originaria lasciata sul caminetto). […]
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Per oggi direi di fermarci qua, dato che gli spunti di riflessione già non mancano!
Come si può vedere, la scelta di utilizzare per il plurale di dwarf (“Nano”) la forma scorretta dwarves fu apparentemente frutto di un errore, di cui Tolkien si rese conto solo successivamente alla pubblicazione. Tuttavia la serie di puntualizzazioni che Tolkien allega a questa sua “ammissione di colpa” rivolta all’editore ci fa pensare che questa fosse frutto più di un suo atteggiamento di abnegazione (molto tipico di J. R. R. Tolkien!) che non di un reale rammarico. Tant’è che in futuro arriverà a rivendicare questo specifico “errore”, e a considerare i plurali dwarves, elves, etc, delle variazioni filologicamente “artificiali” per identificare i suoi Nani, i suoi Elfi. Una maniera per distinguerli dalle creature, decisamente diverse quanto a caratteristiche e funzioni, come ribadisce lui stesso, tipiche del folklore celtico, nord-europeo, etc. Ed era anche una maniera per cominciare a seminare l’idea, che come abbiamo visto diventerà centrale con Il Signore degli Anelli, ma che appunto era già presente in nuce ne Lo Hobbit, che tutto ciò che leggiamo sia frutto di una traduzione/adattamento. Ogni cosa è “adattata” al nostro mondo e al nostro linguaggio, e le uniche parole realmente adatte a ritrarre queste creature e gli elementi della loro realtà sono appunto quelli nelle lingue di QUEL mondo, come ad esempio lo Gnomico.
N.B.: Ci troviamo, nel 1938, ancora per poco nel periodo “medio” della concezione linguistica, da qui l’utilizzo di “Gnomi” e di “Gnomico” per riferirsi agli Elfi Noldor.
Tuttavia, come si evince dal secondo estratto, già in Tolkien si sta facendo strada l’idea che gli Gnomi che abitano la Terra di Mezzo ai tempi di Bilbo siano stati costretti ad abbandonare la propria lingua, il che ci porta molto vicini, anche se ancora non proprio lì, al concept del bando della lingua Quenya (che avrebbe di qui a poco “incorporato”, dal punto di vista storico-diegetico, la lingua dei Noldor) e alla “diaspora” linguistica degli Etyangoldi. Insomma, alle soglie della stesura del Signore degli Anelli, grazie a questa lettera possiamo osservare un’affascinantissima fase intermedia nella concezione linguistica, parallelamente al discorso sulla traduzione.

Qualche ultima considerazione sparsa sul resto.
Ovviamente, anche Smaug è una traduzione germanica di un nome autoctono della Terra di Mezzo (in Peoples of Middle-earth leggiamo che il nome dato al drago dagli Uomini di Dale era Trāgu), e in effetti il germanico primitivo “smugan” è con ogni probabilità imparentato con le radici di Sméagol [sméah] e di smial [smygel], anch’esse collegate alla famiglia semantica dei “buchi” e dello “strisciarci” dentro. Per non parlare del fatto che smeag in Anglosassone è una parola utilizzata per indicare “verme”.
Anche i nomi dei Nani e di Gandalf sono tutti scandinavi (avevo già menzionato, una delle scorse volte, il fatto che fossero tratti dalla Vǫluspá, che non è altro che una sezione dell’Elder Edda, o “Edda Poetica”, citata in questo estratto). Si tratta, dice lui, di una “concessione editoriale”. In altre parole, dell’ennesimo adattamento!
Infine, ho incluso anche il paragrafetto in cui Tolkien parla delle rune, ma questo è un argomento per la prossima volta.
Negli appuntamenti successivi continueremo a sviscerare quei passi dalle Lettere in cui Tolkien illustra questo processo di costituzione della “base teorica” della propria nomenclatura, e tutte queste nozioni serviranno forse a chiarire ancora più chiaramente come i nomi in Tolkien non solo raccontino delle storie, non solo informino la creazione narrativa dell’estetica fono-linguistica che sta alla sua base, ma ci dicano anche qualcosa sul rapporto tra Mondo Primario e Mondo Secondario: nella misura in cui ciò che troviamo scritto come “Elfo”, “Nano”, “Orco” non coincide esattamente con l’immaginario collettivo legato a queste creature mitologiche, le parole che Tolkien usa sono in un certo senso delle “soluzioni di ripiego”, un suo tentativo di trovare le mot juste, e un rimando alle VERE parole che li identificano, ovvero quelle nelle lingue del Mondo Secondario.
Non possiamo non ravvisare, in tutto questo, una riflessione – degna di un filologo! – sul linguaggio, e sulle peculiarità specifiche che ciascuna lingua reca con sé.
Ovviamente oggi possiamo a ben ragione sostenere che l’immaginario è cambiato, e oramai quando si parla di Elfi, Nani e Orchi si pensa, se non in prima battuta quasi, proprio alle creature di Tolkien. Questo dimostra come aver introdotto queste creature, con queste caratteristiche e queste funzioni, in un quadro mitologico nuovo (benché frutto di una “riscrittura creativa”, come abbiamo detto!), frutto dell’ingegno e della fantasia di un singolo uomo, abbia condotto ai risultati che forse Tolkien desiderava: la “nuova mitologia” ha attecchito, possiamo dire!
Riconoscere questo significa ammettere la portata universale dell’operazione di mitopoiesi, e ci fa senz’altro riflettere sul vero significato della sub-creazione. Ne riparleremo!
-Rúmil