SÔVAL PHÂRË – (La “Lingua Comune”) ~ Rubrica sulla Traduzione in Tolkien - EPISODIO 4 ~ Tolkien-autore, Tolkien-aedo, Tolkien-personaggio

Cari amici, ben ritrovati al consueto appuntamento con Sôval Phârë, la rubrica dedicata alla traduzione nell’opera letteraria tolkieniana.

Abbiamo introdotto, negli scorsi appuntamenti, diversi spunti propedeutici al tema della traduzione e del suo forte legame con il tipo di narrazione che Tolkien imbastisce per le sue storie. Abbiamo iniziato parlando di statuto del narratore. Vorrei oggi ripartire da questo concetto, e approfondirlo un pochino, in special modo applicandolo al Signore degli Anelli, per dire qualcosa anche, se mi riesce, sullo stile di Tolkien, sulla sua natura di narratore pre-moderno, sulla peculiarità del suo metodo di riscrittura creativa, grazie al quale egli attinge a modelli letterari precedenti, facenti parte di una ben precisa temperie culturale e linguistica, per riadattarli e rielaborarli a nuove esigenze, non ultima quella di fondare una mitologia per l’Inghilterra.

Iniziamo. Per riassumere quanto affermato in precedenza, e chiarire una volta di più come si compone lo statuto del narratore all’interno del Signore degli Anelli diciamo il seguente:

Il Signore degli Anelli non coincide con il Libro Rosso dei Confini Occidentali, ma incorpora (e rielabora) la sua TRADUZIONE dall’Ovestron, in un escamotage non dissimile, come abbiamo detto, dal topos letterario del “manoscritto ritrovato” manzoniano, e in cui si inserisce, tanto per complicare ulteriormente la faccenda, la questione linguistica.

Il Signore degli Anelli incorpora ed espande anche la TRADIZIONE letteraria del Libro Rosso (quella che abbiamo descritto nel primo appuntamento di questa rubrica attraverso l’elenco puntato), in un complesso gioco letterario secondo il quale l’opera “tradotta” (qui nel duplice senso di “convertita in un codice linguistico diverso dall’originale” e “tramandata attraverso diverse ‘generazioni’ di copisti/fruitori/traduttori/interpreti”) è sempre irriducibile alla somma delle parti (e dei punti di vista) che la compongono. In quanto anche Tolkien ci mette (tacitamente) del suo.

ATTENZIONE: In realtà ci mette TUTTO del suo, come sappiamo e abbiamo detto! (distinguendo tra “ruolo formale” e “ruolo sostanziale”), tuttavia nel gioco letterario che stiamo descrivendo lui è semplicemente l’ultimo anello di questa lunga catena, ovvero il traduttore dall’Ovestron all’inglese moderno.

The Letters of J. R. R. Tolkien, copertina dell’edizione inglese.

Tolkien in cuor suo si considerava DAVVERO l’ultimo passaggio di testimone di una certa tradizione letteraria, in un certo senso perfino quando scriveva le proprie opere originali: il concetto di “riscrittura creativa” dovrebbe venirci in soccorso in questo senso. Attraverso il Legendarium di Arda, Tolkien rielabora topoi letterari, archetipi, suggestioni, personaggi, spunti linguistici, risalenti al patrimonio letterario a lui precedente. Questa “riscrittura”, pur con tutti i caratteri di originalità e autenticità che l’opera di Tolkien incarna (specialmente nella sua visione di ciò che la Letteratura È: sub-creazione), in un certo senso invera il suo sentirsi parte di un percorso più grande: Tolkien è “”””soltanto”””” l’ultimo AEDO a cantare di questo mondo. E infatti concettualmente la Terra di Mezzo, come lui stesso sostiene nella Lettera 211 a Rhona Beare, altro non è che QUESTO mondo, lo stesso mondo di Sigfrido, di Kullervo, di Lancillotto, di Gawain, di Beowulf, di Enea, di Gilgamesh.

A questo proposito, sempre nella Lettera 211, in una nota a piè di pagina, Tolkien riflette sul gap temporale (vale a dire, QUANTO nel passato dovremmo collocare la Quarta Era di Arda per rendere credibili le vicende narrate) sufficiente per mantenere la credibilità letteraria delle vicende del Silmarillion, del Signore degli Anelli, etc, e Tolkien ipotizza circa seimila anni, ponendoci così alla fine della Sesta Era o all’inizio della Settima – pare che le Ere del Mondo si siano nel tempo accorciate.

Con “credibilità letteraria” egli intendeva una verosimiglianza relativa, tale da consentire un “patto narrativo” tra il lettore e il suo mondo, che era “concepito a un diverso stadio di immaginazione” (come sostiene in una famosa intervista rilasciata a Denys Gueroult per la BBC nel 1964), o in un “tempo immaginario” (come scrive sempre alla Beare).

[Tuttavia Tolkien non amava l’espressione “sospensione dell’incredulità”, anzi tentava di perorare contro questa sorta di “teorizzazione della credulità” a fini di puro intrattenimento, preferendo per la propria opera la locuzione “credenza secondaria”, ovvero il credere in un “Mondo Secondario”, appunto.]

Non vi è in Tolkien alcuna pretesa di riscrivere la Storia del mondo, anzi negli ultimi anni sarà sempre più vivo in lui il pallino di smussare le differenze tra Arda e il nostro mondo, “scintificizzandolo” maggiormente, per esempio a livello cosmologico e cronologico. Vi è invece la precisa intenzione di fondare una Mitologia (per l’Inghilterra, ovvero per i discendenti di quegli Angelcynn di cui faceva parte anche Ælfwine, di quegli abitanti di Leithien/Leithian/Luthany/Albion, di cui leggiamo nella History) che vada a inserirsi nel patrimonio mitologico già esistente.

Riferendomi sempre alla fondamentale Lettera 211, riporto di seguito uno schema che chiarisca ulteriormente come, già dal nome “Terra di Mezzo”, il setting per il Legendarium tolkieniano non sia affatto qualcosa di alieno e “fantasy”, in questo senso, ma semplicemente un altro modo di chiamare il nostro mondo (in special modo l’Europa; stiamo comunque parlando di un complesso mitografico eurocentrico, che include tanto la mitologia classica greco-romana tanto quella nord-europea scandinava-germanica):

[oikoumenē] (il “mondo abitato” dagli Uomini secondo la mitologia classica)

||
||
v

middan-geard (Antico inglese, i.e. Anglosassone) [parola cognata della norrena miðgarðr]

> midden-erd, middle-erd (inglese “medioevale”)

> middle-earth (inglese moderno).

È evidente come Tolkien non abbia mai avuto intenzione di edificare un universo di finzione ambientato “in un altro mondo” (come fa piuttosto tutto il fantasy che dichiara di ispirarsi a lui). Tolkien aveva più che altro l’obiettivo (o meglio, il desiderio) di inscrivere la propria attività di narratore all’interno di un percorso molto più antico, già tracciato da altri, e che non contempla affatto una totale “abiura” del mondo in cui viviamo [ciononostante, Tolkien aveva molto a cuore una sua personale interpretazione del concetto di Escapismo, ne riparleremo], ma fosse in realtà “con i piedi ben puntati sulla nostra madreterra”.

Un percorso in cui la “riscrittura creativa” è sempre stato il core poetico e strutturale di tutto: il mito.

Il mito infatti riscrive costantemente se stesso, come ben sappiamo dall’esempio della mitologia classica: molte storie sono state concepite, da uomini diversi e in un lasso di tempo molto ampio, in molteplici versioni; scritte e riscritte attraverso tradizioni letterarie e “media” differenti (inni orfici, poemi epici, tragedie, dialoghi, biografie mitiche, resoconti in prosa); sottoposti a differenti “pubblici” e a differenti sensibilità (gli adepti dei culti misterici, le corti dei regni ellenici del X-IX sec. a.C., il popolo dell’Atene del V sec. a.C., gli eruditi di epoca ellenistica, gli intellettuali e i patrizi della Roma imperiale)… E in ciascuna di queste diverse “vesti” che il mito ha assunto, la perizia del mitografo non risiedeva mai nella proposta di una “novità”, ma nella rielaborazione sistematica e sapiente (leggasi, nella “riscrittura creativa”) di un “testo” già ben noto alla collettività.

Pindaro, Omero, Sofocle, Luciano, Diogene Laerzio, Apollonio Rodio, non erano grandi in quanto “inventori” di mito, ma in quanto straordinari “rielaboratori” di mito. E il nucleo originario di quelle storie, ormai sepolto nella notte dei tempi, costituiva la fonte ancestrale di un patrimonio cui chiunque poteva attingere, con cui poteva misurarsi, e tentare di deliziare i nuovi fruitori di quelle storie con una combinazione inedita, con un linguaggio attualizzato.

La riscrittura non deve essere considerata un difetto, o una mancanza di originalità (questa chimera chiamata “originalità”…), bensì una delle più sublimi forme di creazione. Esattamente come avviene per la musica, vedi le Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach, le Variazioni Enigma di Edward Elgar, e poi Schubert, Brahms, Ravel…

Ricombinare elementi preesistenti per creare qualcosa di “nuovo” è, mi verrebbe da dire, esattamente l’opposto dell’“esser derivativi”, è uno dei meccanismi dell’arte tout court, e produce risultati che possono essere estremamente sofisticati, e provocare un piacere squisito. Tale è il piacere di chi, leggendo Tolkien, potrà rintracciarvi citazioni, riferimenti, ispirazioni, a quelle storie fantastiche e leggende eroiche di cui era tanto appassionato, “a metà strada fra la fiaba e la storia” (Lettera 131 a Milton Waldman).

Tutta questa divagazione (mi scuso se ho annoiato) per sostenere infine che Tolkien è un autore di mito, non di fantasy. Un autore che riscrive creativamente i miti antichi e li colloca in una moderna mitologia per il proprio paese; non un autore che “inventa dal nulla” mondi fantasmagorici. Un autore che tratta tematiche universali della mitologia di ogni tempo, calate in un contesto fantastico; non certo un autore in cui il setting scalza il contenuto quanto a importanza e peso, in cui gli argomenti hanno la meglio sul tema.

A mio parere, infatti, uno dei grandi torti che si possono perpetrare nei confronti di J. R. R. Tolkien è quello di considerarlo uno storyteller più legato all’ambientazione e alla costruzione di mondo, che all’approfondimento di tematiche e alla scrittura di personaggi. Se volessimo potremmo addirittura estremizzare, dicendo che in Tolkien l’estrema acribia e maniacalità nella descrizione e nel livello di dettaglio conferito alla propria costruzione sono quasi più frutto di una sua idiosincrasia caratteriale, di una sua forma di “nevrosi” e perfezionismo, che di una fascinazione nei confronti dell’ambientazione per se rispetto a tutto il resto.

L’ambientazione (in senso lato) è semmai una conseguenza di quel desiderio di “corredare” di un mondo il costrutto linguistico preesistente, come spiega nella Lettera 165:

Le «storie» furono create per fornire un mondo ai linguaggi e non il contrario. Per me, prima viene il nome e poi la storia.

Ancora più chiaramente, dichiara nella Lettera 180:

[…] le «leggende» dipendono dalla lingua a cui appartengono; ma un linguaggio vivo dipende in egual misura dalle «leggende» che la tradizione ha conservato. (Per esempio, la gente non riesce a realizzare che la mitologia greca dipende molto più dalla meravigliosa estetica della sua lingua e dai nomi di persone e posti che dal suo contenuto, benché naturalmente dipenda da entrambi. E viceversa. Volapuek, esperanto, ido, novial, etc etc, sono morti, molto più morti di altre antiche lingue non più usate, perché i loro autori non hanno mai inventato delle leggende in esperanto.)

E attenzione! Vorrei qui sfatare un mito: il costrutto linguistico tolkieniano non è “parte dell’ambientazione”. Non è come il Klingon o l’Alto Valyriano o il Galach o il Nadsat, le quali sono corredi, quasi “oggetti di scena”, props, dei rispettivi mondi in cui sono inserite.

Il costrutto linguistico di Tolkien si trova piuttosto, come abbiamo più volte ribadito nella rubrica sulle Lingue Tolkieniane, e come abbiamo appena letto nei due estratti dalle Lettere, in una relazione dialettica con le storie che per quel costrutto sono state inventate.

L’ambientazione è una diretta conseguenza di questa dialettica linguaggio/storia, quasi un delizioso “orpello” rispetto a tutto il resto: non è affatto ciò su cui il Professore ha concentrato la maggior parte della propria indagine “teorica”, ma qualcosa che gli serviva ardentemente per rendere quel mondo più vivo e più “vero”.

Con questo non voglio certo dire che l’incredibile lavoro di worldbuilding non possa essere visto come uno dei tratti tipici della sua opera, tuttavia mi permetto di dire che non è ciò che conta realmente: non è davvero importante, come a volte si sostiene ai fini di derubricare la sua opera a “letteratura per ragazzi”, “letteratura fantasy” o peggio ancora “para-letteratura”, che in un romanzo di Tolkien compaiano gli Elfi, i Nani, gli Orchi.

Se si scava sotto la superficie si trova che queste figure [le quali oltretutto non coincidono nemmeno 1:1 con le omonime figure mitologiche tratte dall’immaginario precedente a Tolkien: del resto anche i termini “Elfi”, “Nani” e “Orchi” sono delle TRADUZIONI! – ne riparleremo!] sono placeholder, rappresentazioni dell’umano.

È assolutamente vero che, a conti fatti, causa come dicevamo il suo carattere “pignolo”, Tolkien abbia dedicato alla cura per la sua ambientazione, in proporzione, la maggior parte del tempo e degli sforzi, per renderla, se non internamente coerente, letterariamente credibile. Tuttavia, ciò che realmente conta all’interno dell’opera tolkieniana (come ci dice esplicitamente lui stesso in diverse lettere: 186 – 203 – 208 – la stessa 211), è proprio lo svisceramento del suo tema principale, in tutte (o molte de) le sue varianti: Vita, Morte, Immortalità. Ovvero l’idea che ossessiona tutti gli esseri umani e che perciò non può che essere il centro di tutte le grandi storie dell’umanità, ciò che le accomuna tutte, la riflessione filosofica ultima: siamo esseri finiti, moriremo, e dobbiamo fare i conti con questa cosa.

Per trattare questo tema, Tolkien è disposto anche (ed è questo a renderlo un autore pre-moderno! o in altre parole potremmo dire pre-illuminista) a “sacrificare” il personaggio nei suoi tratti più individualistici, preservandolo come figura narrativa, ma sarebbe più corretto dire come archetipo.

I suoi personaggi sono più legati all’ἔπος che al modello (che oggi chiamiamo character-driven) della cosiddetta “struttura in tre atti”, e all’indagine psicologica da esso incarnata. [Tolkien non è, e non sarà mai, Dostoevskij, né intende esserlo!] Tolkien è al contrario uno degli esponenti contemporanei più significativi del “monomito” (o “viaggio dell’eroe”).

I suoi personaggi hanno sì profondità psicologica (come la hanno del resto l’Ettore dell’Iliade, la Didone dell’Eneide, il Wiglaf del Beowulf, il Galvano del Sir Gawain and the Green Knight), ma nella misura in cui possono averla dei caratteri precedenti alla cosiddetta “invenzione del Soggetto” nella filosofia occidentale moderna: i loro conflitti sono esternalizzati e “classici” (Uomo, Natura, Dio), sporadicamente toccano spunti “moderni” (Società, Sé, Assenza di Dio), ma senza che questo metta mai in discussione l’integrità e la “linearità” del loro arco. In effetti, sarebbe più corretto dire che i personaggi di Tolkien non entrano in conflitto con se stessi, ma eventualmente con il Male che alberga in ciascuno di noi; non entrano in conflitto con la società in quanto tale, ma con il virus del Male che in essa trova terreno fertile; non entrano in conflitto con l’assenza di Dio, ma ne subiscono le conseguenze e lo cercano continuamente, oppure cadono vittima di falsi dèi e costruiscono per loro idoli. [Degno di riflessione è il fatto, ma non sono certo il primo a far notare questa cosa, che l’unico “tempio” all’interno del Legendarium sia quello a Númenor, dedicato a Morgoth e costruito sotto l’influenza di Sauron/Zigûr.]

Di certo i personaggi tolkieniani non hanno nulla di “post-moderno” in senso stretto: il conflitto con la Tecnologia non è mai raccontato in quanto tale, ovvero come dramma di incomprensibilità e alienazione (anche se forse Tolkien nella sua vita privata si espresse anche in questi termini!), ma eventualmente compare una riflessione su ciò che di maligno vi è nella Macchina (uno degli “archetipi” tolkieniani, che a sua volta conduce alla Caduta). I personaggi non entrano in conflitto con il Linguaggio (anche se possono deturparlo, vedi gli Orchi); non entrano in conflitto con la Realtà che li ospita, con la quale perfino lo sconquasso del Male riesce alla fine, suo malgrado, a entrare in armonia (vedi l’Ainulindalë); e men che mai entrano in conflitto con l’Opera che li racconta o con il suo Autore.

Conflict in Literature by Grant Snider (Incidental Comics)

Sarebbe estremamente interessante compiere qui un’analisi sul “monomito” tolkieniano, e notare come le storie del Professore si attaglino perfettamente a questo modello, e anzi costituiscano oggi per molti studiosi di narratologia un esempio contemporaneo tra i più popolari ed emblematici. Tuttavia non è la sede adatta, e rischieremmo di andare fuori tema.

Per concludere questo percorso, dopo aver parlato diffusamente del Tolkien-autore e del Tolkien-narratore/aedo, sarà anche il caso di introdurre il concetto (in realtà già implicito in quanto abbiamo detto) del Tolkien-personaggio. Al di là dell’ovvia partecipazione al suo stesso Legendarium nel ruolo formale di traduttore, come abbiamo detto, e dunque di “ultimo anello della catena” di copisti (e altrettanti personaggi) della materia letteraria, Tolkien diventa, alla fine di tutto, un “personaggio” delle sue storie. Mi sto riferendo in particolare al finale della “parabola” di “Leaf”by Niggle. E per comprendere meglio quanto vi è da dire su questo argomento, che qui accenniamo soltanto e che tratteremo degnamente in un futuro episodio, bisogna tornare a un concetto menzionato precedentemente: la “credenza secondaria”. Parleremo in futuro di quello che, insieme al Fabbro di Wootton Major, è a conti fatti il vero e proprio testamento spirituale del Professore Oxoniense, la summa delle sue riflessioni (e auto-riflessioni!), nonché una dolcissima e delicata immagine attraverso la quale possiamo intuire cosa il Mondo di Arda rappresentasse per lui, e come mai vi abbia dedicato la sua intera esistenza. Potrebbe risultare utile a qualcuno per comprendere meglio la natura di quest’opera letteraria, e di questa romantica e brillante idea sul ruolo della letteratura nelle nostre vite.

Alla prossima!

-Rúmil

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