SÔVAL PHÂRË – (La“Lingua Comune”) ~ Rubrica sulla Traduzione in Tolkien - EPISODIO 21: La Guide to the Names of The Lord of the Rings. Gli Hobbit e i loro ceppi

Cari amici, ben ritrovati al consueto appuntamento con Sôval Phârë, la rubrica dedicata alla traduzione nell’opera letteraria tolkieniana.

Proseguiamo con la presentazione e analisi di una selezione di voci tratte dalla Guide to the Names. Quest’oggi parleremo ancora di Hobbit, anzi, tra le altre cose, proprio della parola “Hobbit”, la quale, nonostante non dovesse assolutamente essere tradotta (Tolkien era molto intransigente a riguardo!), fu comunque inserita in questa lista.

Probabilmente la ragione è che, a suo giudizio, servisse rimarcare ulteriormente il concetto (il ricordo dello Hompen svedese era ancora troppo doloroso!), ma senza dubbio gli premeva anche sottolineare una volta di più il principio secondo cui un nome il cui significato fosse, al tempo in cui è ambientata la storia, non più riconoscibile, perché dimenticato o assimilato nel lessico come referente autonomo, non dovesse essere tradotto.

La voce relativa ad “Hobbit” è in effetti molto sintetica ed eloquente:

Hobbit. Non tradurre, poiché il nome è concepito per non avere più alcun significato riconoscibile nella Contea, ed è pensato per non avere alcuna derivazione dalla Lingua Comune (= Inglese o la Lingua della Traduzione).

The Landlord of the Ivy Bush by Kay Woollard

Non è un caso che Tolkien scriva “non avere più alcun significato riconoscibile”. Sappiamo infatti che il termine Hobbit, che Tolkien aveva inventato, pare, in maniera del tutto incidentale, come racconta nella celeberrima Lettera 163 a W. H. Auden, ricevette dal Professore una giustificazione etimologica a posteriori, e fu fatto risalire alla stessa origine del calco anglosassone Holbytla, “Scavabuchi”, parola che nel romanzo è messa in bocca a Re Théoden di Rohan. Questo escamotage di “etimologia retroattiva” serviva a creare l’impressione, anche nella “traduzione inglese” del romanzo, che la lingua parlata dagli Hobbit (il dialetto hobbitish dell’Ovestron) e la lingua parlata dai Rohirrim fossero imparentate, come se l’una fosse l’evoluzione (o la “corruzione”) dell’altra.

All’interno della diegesi, come abbiamo già abbondantemente spiegato, i termini hobbit e holbytla, proprio in quanto traduzioni extra-diegetiche, non “esistono”: le loro versioni, rispettivamente in hobbitish e in rohanese, sono Kuduk e Kûd-dûkan. È evidente la correlazione e parentela tra i due termini, tuttavia per un hobbit della Contea “Kûd-dûkan” ha un significato sconosciuto, ormai perso nel tempo, dato che le due lingue si sono così distanziate; mentre la sua versione “contratta”, ovvero Kuduk, non ha trattenuto il senso che aveva originariamente, divenendo invece un referente semanticamente “nuovo”.

Kuduk, deduciamo inoltre, non ha una derivazione diretta dall’Ovestron, ma è un termine dialettale, e per un parlante Ovestron estraneo alla Contea non ha alcun senso: i Gondoriani non conoscono questo termine, e definiscono un hobbit con il termine Sindarin Perian (pl. Periannath) o con il termine Ovestron Banakil. Entrambi i lemmi hanno il significato di “Mezzuomo”, e difatti, ogniqualvolta leggiamo in inglese nel testo Halfling “Mezzuomo”, possiamo supporre che traduca proprio l’Ovestron Banakil.

Tornando a “Hobbit” possiamo osservare che, per quanto parte integrante della “traduzione inglese”, questo termine sia piuttosto distante da “holedweller”: il significato che gli Hobbit attribuiscono al proprio nome si riferisce agli Hobbit stessi, ma al di là di questa accezione la parola ha una funzione puramente legata al significante, e non trattiene il significato che aveva in origine di “creature che scavano buche e vi abitano”. Pertanto sarebbe improprio, nel passaggio a una lingua diversa dall’inglese, tradurla “a senso”, dal momento che in inglese essa non è “modernizzata”. Non è un “nome parlante”, per capirci.

Un ragionamento simile si potrebbe fare per altre parole, che non rientrano a pieno titolo nella Lingua Comune, ma costituiscono termini dialettali che gli hobbit utilizzano esclusivamente per parlare tra loro, e per riferirsi a oggetti e concetti che non avrebbero senso al di fuori della Contea. È il caso di mathom e smial (o meglio: dei nomi hobbit di cui mathom e smial sono traduzioni in “pseudo-anglosassone”!). Entrambi questi nomi possiedono infatti radici in Old English, riportate nella Nomenclature. Ecco le voci relative:

Mathom. Lasciare invariato; non è Lingua Comune, ma una parola peculiare degli hobbit (confronta Smial, e vedi III 414). Il significato è definito in I 14 [nel Prologo] come “tutto ciò per cui gli Hobbit non avevano un uso immediato, ma che non desideravano gettare via”. Rappresenta l’antico-inglese máðm “cosa preziosa, tesoro”.

Mathom Lore by Robin Wood

Smial. Una parola peculiare degli hobbit (non Lingua Comune), dal significato di “tana”; lasciare invariato. È una forma che il termine antico-inglese smygel “tana, cunicolo” avrebbe potuto assumere, se fosse sopravvissuto. Lo stesso elemento compare nel vero nome di Gollum, Sméagol. Vedi III 414-15.

Hobbit homes smials with thatch by Rearda on deviantArt

Per le stesse ragioni di hobbit, Tolkien suggerisce di lasciare non tradotti questi nomi. Sono a loro volta traduzioni, è vero; hanno una riconoscibile derivazione dall’anglosassone, è vero; tuttavia sono “casi limite”, ovvero i loro significati correnti presso gli hobbit sono determinati dall’uso, ma la loro origine si perde nel tempo, e loro non la ricordano.

Tolkien, per rendere questa caratteristica del linguaggio, che riqualifica e deforma antichi termini, e gli attribuisce nuovi significati (chissà se o quanto assimilabili agli usi precedenti!), decide pertanto di inventare dei neologismi, di fatto “calchi” dall’anglosassone, che in inglese non hanno alcun significato all’infuori della sua storia. In questo modo vuole dar conto di una ricchezza lessicale e semiologica, che di fatto rende più “viva” e veritiera la società hobbit.

Personalmente ritengo che queste indicazioni siano affascinanti e utili, e del resto tradurre mathom e smial presupporrebbe, in un certo senso, tradurre anche holbytla e Ferthu, Théoden, hál!, ovvero “convertire” tutto ciò che possa essere ricollegato all’anglosassone in un equivalente che si accordi con la Lingua della Traduzione. Operazione che Tolkien escludeva in partenza, in quanto foriera di complicazioni senza fine e fuori controllo (oltre che una richiesta decisamente eccessiva per i traduttori!).

Tuttavia non escludo che, in casi limite come appunto mathom e smial, si possa cortesemente declinare l’invito di Tolkien e, per un traduttore che abbia abbastanza buona volontà, e desiderio di imprimere la sua impronta creativa, elaborare delle traduzioni per questi termini. Potrebbe non essere un’idea del tutto peregrina, specie se consideriamo che alle orecchie di un lettore inglese mathom e smial potrebbero pur sempre comunicare qualcosa, seppur subliminalmente o indirettamente, e non limitarsi esclusivamente alla loro funzione significante. Il dibattito su questo è aperto.

Per concludere questa “sezione sugli Hobbit” vorrei adesso presentare le ultime parole di questa prima selezione: il già citato termine Halfling e i termini che designano i tre ceppi di cui la specie hobbit si compone: Harfoots, Fallohides e Stoors.

Nelle traduzioni italiane sono stati resi rispettivamente con Pelopiedi, Paloidi e Sturoi (Alliata) e con Pelòpedi, Cutèrrei e Nerbuti (Fatica). Vediamo cosa ci dice Tolkien sull’etimo di questi nomi, e quali considerazioni possiamo trarre:

Halfling. Nome in Lingua Comune per Hobbit. Non si tratta di un’autentica parola inglese, tuttavia ne ha l’aspetto (cioè è adeguatamente formata, con un suffisso appropriato). Il significato è “un uomo/ una persona dall’altezza pari a metà della dimensione abituale”. Tradurre con un’invenzione simile, che contenga la parola della Lingua della Traduzione per “metà / mezzo”. La traduzione olandese ha usato Halfling (presumibilmente un derivato intellegibile di half, sebbene non sia in uso in Olanda più di quanto lo sia in Inghilterra.)

Harfoots. (Plurale.) Pensato per essere intellegibile (all’interno del suo contesto) e riconoscibile come la forma alterata di un antico nome = “hairfoot”: ovvero “individuo dai piedi pelosi”. (Tecnicamente, dovrebbe rappresentare l’arcaico hcer-fot > herfot >herfoot, con l’abituale modifica er > ar, ricorrente nell’inglese moderno. La parola inglese hair, benché correlata, non deriva direttamente dall’antico-inglese hcer/her = tedesco Haar.) Il tedesco Harfuss potrebbe rappresentare adeguatamente la forma, il significato e il lieve cambio ortografico in un antico nome proprio. Vedi anche Fallohide.

Fallohide. Questo termine ha creato qualche difficoltà. Dovrebbe, se possibile, essere tradotto, dal momento che rappresenta un nome provvisto di significato in Lingua Comune, sebbene un significato concepito in passato, e che dunque contiene elementi arcaici. È composto dall’inglese fallow + hide (parole cognate rispettivamente dei termini tedeschi falb e Haut) e significa “dalla pelle pallida”. È di fatto arcaico, poiché fallow “pallido, giallognolo” non è in uso oggigiorno, eccetto che in fallow deer [n.d.t. “daino”]; e hide non è più un termine che si applica alla pelle umana (tranne che come retro-trasposizione dalla sua accezione moderna di “pelli animali”, usato per il cuoio). Tuttavia questo elemento di arcaismo non necessita di essere replicato. Vedi Marcho e Blanco. Vedi anche la nota sulla relazione tra alcune particolari parole Hobbit e la lingua di Rohan [in Appendice F, pag. 1136, III: 414].

Stoors. Il nome del terzo ceppo degli hobbit, di costituzione più robusta. Questa parola deriva dall’antico termine inglese stor, stoor “grande, forte”, ora obsoleto. Dal momento che dovrebbe trattarsi di una speciale parola hobbit, non facente parte della Lingua Comune propriamente detta, non è necessario che sia tradotta, e può essere rappresentata da un calco più o meno “fonetico”, in accordo con l’ortografia della Lingua della Traduzione. Tuttavia, una parola arcaica o dialettale che abbia questo significato nella Lingua della Traduzione sarebbe ugualmente accettabile.

Harfoots, Fallohides e Stoors in Hobbits comparison by Lidia Postma

Come si può vedere, Tolkien non dà mai indicazioni univoche, ma si rimette molto al gusto e all’inventiva dei traduttori. In molti casi suggerisce, in mancanza di soluzioni migliori, di adattare foneticamente i nomi, perché “suonino” come parole della lingua di destinazione, pur perdendosi il significato originario. Questo è un sacrificio accettabile specialmente in quei casi in cui il termine originale sia obsoleto, o non immediatamente riconoscibile, e dunque il suo valore fonosimbolico viene messo praticamente allo stesso livello del valore semantico.

È evidente, da queste note, come Tolkien amasse profondamente giocare con le parole, giustapporle, metterle in relazione tra loro, crearne di nuove a partire da vecchi termini in disuso, recuperare accezioni ormai sepolte dal tempo…

Il lavoro linguistico su quest’opera è indubbiamente il vero specifico della sua arte, e il brio genuino con cui queste creazioni sono rese vive grazie al contesto narrativo, e non ridotte a mere circonvoluzioni da filologo, è indicativo anche rispetto al confronto con le “lingue inventate”: le lingue hanno bisogno di una storia, e una storia ha bisogno di una o più lingue attraverso la quale esser raccontata.

Alla prossima!

-Rúmil

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