Ben ritrovati a Sôval Phârë, la rubrica dedicata alla traduzione nell’opera letteraria tolkieniana.
Nello scorso appuntamento, il primo di questo nuovo percorso, abbiamo intrapreso una serie di discorsi propedeutici all’argomento della traduzione, in particolare abbiamo tentato di dare qualche definizione dello statuto narrativo del Legendarium. Chiaramente ogni opera di J.R.R. Tolkien costituisce un caso a sé, o per dirla in termini diversi, intrattiene e simboleggia una diversa relazione tra Mondo Primario e Mondo Secondario. Esiste beninteso un “filtro” che Tolkien applica nella realizzazione di questa dialettica tra diegetico ed extradiegetico, tuttavia si tratta di un filtro molto labile, in cui i confini tra il mondo in cui sono ambientate le vicende e il nostro sono indistinti e a volte indeterminabili.
Farò tre ordini di esempi diversi:
-
Vi siete mai chiesti per esempio come sia possibile che nello Hobbit e nel Signore degli Anelli il narratore sporadicamente menzioni (o addirittura metta in bocca ai personaggi!) elementi anacronistici rispetto all’ambientazione, come i treni espressi, il gioco del football, il golf?
-
Altri elementi invece sembrano esistere realmente, e tuttavia parrebbero essere quasi esclusivamente appannaggio della Contea, come gli ombrelli, la pipa, i fiammiferi, la cuccuma del tè, il servizio postale.
-
Infine il nostro buon narratore non disdegna espressioni o riferimenti culturali che appartengono indubitabilmente al nostro mondo, e che ci riesce difficile collocare all’interno del setting di Arda, come ad esempio “in fila indiana”, “in picchiata”, “driade”, “gioviale”.
Queste tre tipologie di “anacronismi”, o di apparenti “fuoriuscite” da quel patto di narrazione totalmente diegetica che la presenza di redattori in-universe lascerebbe presupporre, possono essere risolti attraverso due ordini di riflessioni diverse:
-
Il mondo degli Hobbit sembra essere, in termini quanto meno culturali e di immaginario collettivo, quasi più vicino al nostro che al resto della Terra di Mezzo. La domanda è: perché? Per rispondere, conviene prima domandarsi quale sia la percezione degli Hobbit nei confronti di se stessi e del rapporto tra il loro piccolo mondo periferico e il più vasto mondo di cui sono ospiti.
In effetti, miti e leggende provenienti dal passato di Arda costituiscono per gli Hobbit un retroterra leggendario e mitico tanto quanto i miti del nostro mondo per la nostra cultura, all’incirca. Gli Hobbit più cinici o scettici non riescono a credere all’esistenza di Olifanti, Draghi, Uomini-Albero… e sebbene alcuni di loro abbiano incontrato Elfi o Nani, magari di passaggio dai loro territori, e nella Contea persista un flebile ricordo degli Anni Oscuri e di come i servi del Nemico avessero accerchiato il Regno del Nord, oggi (ovvero alla fine della Terza Era) tutto questo risulta essere per alcuni nebuloso e indistinto, come facente parte di un passato mitico più che di un passato storico. [Salvo avere anche un sano rapporto con la memoria storica, i musei, la conservazione del passato, nonché una passione per le genealogie e i vecchi racconti. Tuttavia anche in questo caso, più per una sorta di vezzo borghese che per una reale curiosità di scoprire cosa c’è “lì fuori”.]
Da tutto ciò è evidente che la Contea rappresenti, nell’economia dell’universo narrativo del SdA e del Legendarium tutto, una sorta di “mondo di passaggio” tra il Mondo Primario e il Mondo Secondario.
Da un punto di vista della teoria della narrazione, potremmo tirare in ballo il monomito, o “viaggio dell’eroe” di Campbell/Vogler: vi è una netta separazione, quasi schematica, tra “mondo ordinario” e “mondo straordinario”. Tutto ciò che sta fuori dalla Contea rientra a pieno titolo in quello che definiremmo “mondo straordinario”, tanto per il lettore quanto per gli stessi Hobbit. Questo meccanismo risulta essere molto efficace, in quanto crea da un lato la giusta immedesimazione nei confronti dei personaggi protagonisti, dall’altro lato crea la giusta “distanza” tra la nostra percezione e la materia puramente fantastica, amplificando l’effetto di suggestione che eserciterà su di noi leggere delle avventure di Bilbo e Frodo.
Ecco spiegato uno dei motivi per cui ad esempio, dal punto di vista stilistico e linguistico, i nomi Ovestron degli Hobbit sono resi con nomi in inglese moderno: la Contea È un avatar “Ardiano” dell’Inghilterra, in un certo qual modo. Perciò “Labingi” dovrà diventare “Baggins”, per risultare più familiare alle orecchie di un lettore inglese, per dare l’idea di un “everyman”, di una figura in cui identificarsi e di cui seguire con maggior coinvolgimento possibile le sorti nel corso dell’avventura.
Cominciamo già da adesso a intravedere l’intervento dell’autore, ma sarà ancora più chiaro dalla seconda riflessione suscitata dagli “anacronismi” presenti nel testo:
-
Il Signore degli Anelli è frutto di una traduzione/adattamento. Di conseguenza, il ruolo formale di Tolkien nel portare questa storia al pubblico di lettori inglesi del XX secolo è stato proprio quello di “tradurre” quanto è scritto nel Libro Rosso in una lingua moderna, che faccia eventualmente ricorso (senza esagerare!) a espressioni del parlato, riferimenti culturali, immagini, metafore, concetti, facenti parte del NOSTRO mondo (o meglio, del mondo dell’autore, che scrive tra gli anni ’30 e ’50 del ‘900).
Questa operazione comporta dunque, come accennavamo, un intervento diretto dell’autore, che “adatta” quanto è contenuto nel “manoscritto ritrovato” condendolo con istanze moderne, vicine alla sensibilità, al gusto, alla familiarità del SUO pubblico di lettori, verso i quali egli sente la responsabilità di dover portare questa storia nel migliore dei modi, ovvero nella maniera più coinvolgente ed efficace possibile.
Parlavo di “ruolo formale”, dal momento che sappiamo il “ruolo sostanziale” di Tolkien essere anche l’inventore e ideatore di quel mondo. Tuttavia l’invenzione di questo particolarissimo statuto del narratore è l’essenza stessa della sub-creazione tolkieniana. Senza comprendere questo, quasi nulla di ciò che leggiamo ci parrà avere il minimo senso, o nel migliore dei casi ci “scandalizzeremo” di fronte a quelle che a uno sguardo disattento parranno incongruenze, “buchi” nel worldbuilding, disattenzioni.
***

Tutto ciò che abbiamo detto finora, tanto le ragioni “narrative/letterarie” quanto le ragioni “formali/linguistiche”, pone a ben vedere le sue basi nel rapporto “strategico” nei confronti del lettore: è al fine di catturare il lettore in questo mondo che si “attualizza” un’immaginaria materia antica, ed è proprio la TRADUZIONE lo strumento fondamentale attraverso il quale è possibile veicolare questo raffinato e articolato gioco letterario. Potremmo qui dilungarci sulle implicazioni di quest’idea: la traduzione e l’adattamento come mezzi di comprensione profonda, di coinvolgimento emotivo, di preservazione dell’impatto dell’opera nei suoi significati sull’immaginazione e la sensibilità del lettore… Vi assicuro che nessuno di questi discorsi sarebbe im-pertinente, ovvero non pertinente. Viceversa sarebbero riflessioni molto “tolkieniane”, nel procedimento e nelle conclusioni. Ma ce le riserviamo per una prossima volta!
Adesso lasciamo la parola allo stesso Tolkien, in quale, si dà il caso, nell’Appendice F (“Notizie Etnografiche e Linguistiche”) del Signore degli Anelli dedica un intero capitolo alla questione della traduzione, esponendo (sempre dall’interno del “gioco letterario”!) il meccanismo su cui si regge l’intero impianto narrativo. Riporto alcuni estratti (la traduzione è leggermente rivista da me):
II. A PROPOSITO DELLA TRADUZIONE
Nel presentare la materia del Libro Rosso come una storia che va letta dalla gente di oggi, l’intero quadro linguistico è stato tradotto per quanto possibile in termini attuali. Solo gli idiomi diversi dalla Lingua Comune sono stati lasciati nella loro forma originale, ma essi appaiono per lo più in nomi di luoghi e di persone. La Lingua Comune, essendo il linguaggio degli Hobbit e dei loro racconti, è stata trasposta in lingua moderna. […]
Questo tipo di traduzione è frequente, in quanto inevitabile in ogni racconto che si riferisca al passato; è assai raro che ci si spinga oltre. Eppure io non mi sono fermato qui: ho tradotto anche i nomi Ovestron a seconda del loro significato. In questo libro, quando si trovano nomi o titoli nella nostra lingua, significa che all’epoca quei nomi erano frequenti nella Lingua Comune, e venivano adoperati oltre a quelli originali (di solito in idiomi elfici), o in loro vece. […]
Questo modo di procedere va forse giustificato. Mi sembrava che presentare tutti i nomi nelle forme originali avrebbe resa oscura la comprensione di un aspetto della vita di allora, che invece era assai chiaro agli occhi degli Hobbit (il cui punto di vista intendevo soprattutto conservare): il contrasto fra una lingua molto diffusa che per loro era consueta come l’inglese lo è per noi, e gli ultimi residui di idiomi molto più antichi e nobili. Se avessi semplicemente trascritto tutti i nomi, essi sarebbero apparsi al lettore moderno egualmente remoti e incomprensibili. […]
Essendomi spinto tanto oltre nel mio intento di modernizzare e di rendere familiari i nomi e il linguaggio degli Hobbit, mi sono trovato coinvolto in un ulteriore procedimento. I linguaggi degli Uomini imparentati con l’Ovestron dovevano a mio parere essere tradotti sottolineando la stretta parentela con la nostra lingua. Ho quindi reso l’idioma di Rohan simile a una lingua moderna nella fase arcaica, poiché era abbastanza vicino alla Lingua Comune e strettamente collegato all’antica lingua degli Hobbit settentrionali, e simile in qualche modo all’arcaico Ovestron. Nel Libro Rosso si legge ripetutamente che all’udire l’idioma di Rohan gli Hobbit riconoscevano molte parole e sentivano una notevole affinità con la loro propria lingua, per cui mi sembrava assurdo lasciare nomi e parole dei Rohirrim in uno stile del tutto incomprensibile. […]
Il linguaggio ancor più nordico di Valle appare in questo libro esclusivamente nei nomi dei Nani di quella regione, i quali adoperavano la lingua degli Uomini di quelle zone e vi coniavano i loro nomi “esterni”.
***
In questi estratti c’è letteralmente tutto ciò che basterebbe sapere! Tolkien è chiarissimo nella sua esposizione del proprio metodo di adattamento, estremamente dettagliato negli esempi e attento a spiegare i rapporti, quasi i “dosaggi”, tra una lingua e l’altra tra tutte quelle da lui adoperate per la traduzione. Come abbiamo già riferito in questo articolo, le lingue cui fa riferimento nell’ultima parte, quando accenna al metodo scelto per rendere le lingue degli Uomini che abbiano una qualche relazione o “rapporto” con la Lingua Comune, o di cui si riesca a ricreare un corrispettivo con lingue del Mondo Primario, sono ovviamente l’Anglosassone per il Rohirric e il Norreno (Norvegese antico) per la lingua degli Uomini di Dale (“Valle”), che nel SdA compare appunto esclusivamente nei nomi dei Nani di Erebor o in generale della stirpe di Durin: Dáin, Náin, Frór, Grór, sono tutti nomi di derivazione norrena, a volte addirittura citazioni dirette a nomi presenti nella Vǫluspá o in altre sezioni dell’Edda Poetica; esattamente come Theoden, Eowyn, Meduseld, Edoras, sono nomi di derivazione anglosassone, a volte addirittura citazioni dirette a nomi presenti nel Beowulf.
Per quanto riguarda i nomi dei Nani, Tolkien fa riferimento alla distinzione tra nome “esterno” o pubblico e nome autentico, il quale era segreto se non alla propria stirpe, così come segreta, e gelosamente custodita dai Nani, era la loro lingua, il Khuzdul. Essi non ne facevano uso se non tra di loro, rivolgendosi agli esponenti degli altri popoli attraverso la Lingua Comune o, prima che questa esistesse, attraverso lingue franche come poteva essere il Sindarin nel Beleriand della Prima Era. Per quanto questo potrà essere sconvolgente per qualcuno: non solo “Dáin” non è il “vero” nome del Nano in una lingua che sia realmente parlata nella Terra di Mezzo, bensì la traduzione norrena del suo corrispondente nella lingua degli Uomini di Dale; ma qualora noi conoscessimo questo corrispondente, neanche questo sarebbe il nome autentico di Dáin! ma una sorta di nome pubblico, utilizzato per i contatti con Uomini ed Elfi. Il vero nome di Thorin, il vero nome di Gimli (tutti nomi tratti dall’Edda) restano oggetto di mistero.
È significativo (ancorché ovvio) che Tolkien dica “quando si trovano nomi o titoli nella NOSTRA lingua”: è evidente che per lui, e per qualsiasi lettore inglese, “Baggins” (per esempio) sia un nome immediatamente riconducibile all’inglese moderno… Faccio questo inciso perché nel seguito di questa rubrica dedicheremo ovviamente alcune riflessioni sul tema delle traduzioni DA Tolkien a altre lingue.
Proprio perché Tolkien considerava di estrema importanza la traduzione dei nomi, come abbiamo visto, un ipotetico traduttore delle sue opere in italiano, portato a compiere le medesime riflessioni, si chiederà quale sia la maniera più consona per rendere nella NOSTRA lingua questo enorme e complesso impianto.
Liquidare la questione con una procedura semplificatoria o, peggio ancora, “deporre le armi” in partenza lasciando inalterati i nomi inglesi, dimostrerebbe, da parte del suddetto traduttore, un approccio opposto a quello di Tolkien, e dunque disfunzionale e controproducente rispetto al fine che si ripromette.
Forse non sorprenderà, ma i suggerimenti e gli strumenti più utili per districare questo Nodo Gordiano ce li fornisce lo stesso Tolkien, ed è per questo che dedicheremo in futuro un post alla Guide to the Names. Vi prometto che ne riparleremo! Così come torneremo senz’altro a parlare dell’Appendice F, che non ha affatto esaurito gli spunti per questa serie di incontri.
Alla prossima!
-Rúmil