SÔVAL PHÂRË – (La“Lingua Comune”) ~ Rubrica sulla Traduzione in Tolkien - EPISODIO 17: Dalla traduzione alle traduzioni (Parte 3) [SVEZIA]

Cari amici, ben ritrovati al consueto appuntamento con Sôval Phârë, la rubrica dedicata alla traduzione nell’opera letteraria tolkieniana.

Addentrandoci nella nostra panoramica sulle prime traduzioni del Signore degli Anelli, affrontiamo adesso la traduzione svedese, la quale a un primo esame del Professore (sempre inerente la nomenclatura) risultò perfino più indigesta rispetto a quella olandese. Ecco cosa scrive a Rayner Unwin in merito a una lista di nomi inviata dal traduttore svedese, Åke Ohlmarks:

Lettera 204 a Rayner Unwin, 7 dicembre 1957

[…]

Svezia. L’allegato che hai portato dalla Almqvist & c era sorprendente e irritante al tempo stesso. Una lettera in svedese del filologo dottor Ake Ohlmarks, e una lunga lista (nove pagine di carta protocollo) di nomi del Signore degli Anelli che lui ha cambiato. Spero che la tendenza a esagerare l’impressione ricevuta dipenda dalla mia scarsa conoscenza dello svedese – non molto migliore della mia conoscenza dell’olandese, ma posseggo un dizionario olandese molto migliore! Resta l’impressione, tuttavia, che il dottor Ohlmarks sia una persona piena di sé, meno competente del simpatico Max Schuchart, benché si creda molto migliore.

Nella sua lettera mi impartisce una lezione sulle caratteristiche della lingua svedese e sulla sua antipatia nel prendere a prestito parole straniere (una questione che non è pertinente), affermazione ridicolizzata dal linguaggio stesso della sua lettera, che consiste per più di un terzo di parole prese in prestito dal tedesco, dal francese e dal latino: thriller-genre non è infatti un buon esempio del buon vecchio puro svedese.

Trovo sorprendente questo modo di comportarsi, perché la lettera e la lista mi sembrano totalmente superflue a meno che non vengano richieste la mia opinione e le mie critiche. Ma se questo è l’obiettivo, allora il momento scelto è poco felice e anche poco gentile, perché mi punta addosso un fucile dicendo: «stiamo per iniziare la composizione in tipografia». Né si tiene conto dei miei impegni: la comunicazione piove dal cielo nella seconda settimana accademica dell’anno, la più laboriosa. Ho dovuto stare alzato fino a tardi l’altra notte solo per scorrere la lista.

Ammettendo la legittimità o la necessità di una traduzione (che io non ammetto, oltre un certo limite), la traduzione non mi sembra che riveli molta abilità e contiene un bel numero di errori. * [* Per esempio: Ford of Bruinen [il Guado di Bruinen] = Bjornavad! Archet = Gamleby (tradotto a caso, suppongo, da «arcaico») Ered Luin [Monti Azzurri] = Manbergen; Gladden Fields [Campi iridati] = (nonostante la descrizione del vol. I) = Ljusa slatterna, e così via.]

Anche se scusabili, in considerazione della difficoltà presentata dal libro, penso che siano deplorevoli, e avrebbero potuto essere evitati scrivendomi prima per chiedermi consiglio. Mi sembra del tutto evidente che il dottor O. ha proceduto a tentoni, affrontando le cose man mano che si presentavano, senza preoccuparsi troppo del futuro o della coordinazione, e che non ha assolutamente letto le Appendici ** [** Oppure la nomenclatura degli ultimi volumi.], dove invece avrebbe trovato molte risposte. […]

Spero vivamente che ci si potrà accordare, se e quando saranno fatte altre traduzioni, sul fatto che io venga consultato in tempo – senza che mi si punti il fucile alle costole all’ultimo momento. Dopo tutto, non costa niente, e può risparmiare ad un traduttore parecchio tempo e parecchio scervellarsi; e se sarò consultato in tempo le mie osservazioni non sembreranno critiche permalose.

Mi accorgo ora che la mancanza di un indice dei nomi è un serio handicap quando si affrontano questi argomenti. Se avessi un indice dei nomi (anche se avesse solo il riferimento al volume e al capitolo, e non alla pagina) sarebbe una faccenda relativamente facile indicare subito tutti i nomi adatti ad essere tradotti (in quanto, in base alla finzione, tradotti essi stessi in inglese), e aggiungere qualche annotazione circa i punti (ora li conosco) su cui è facile che i traduttori inciampino. […]

Questa lista mi sarebbe molto utile per le future correzioni e per comporre un indice (che penso dovrebbe prendere il posto delle attuali Appendici); e anche nell’affrontare Il Silmarillion (nel quale ho dovuto riportare un po’ del Signore degli Anelli per rendere coerenti i due libri). Pensi di poter fare qualcosa?

Copertine della prima edizione svedese (Härskarringen, lett. “The Ruling Ring”, conosciuto anche con il titolo editoriale di Sagan om ringen) del Signore degli Anelli (1959-61), pubblicato presso la casa editrice Almqvist & Wiksell Förlag. In una lettera del 1960 a H. W. Donner, Tolkien si espresse sfavorevolmente anche nei riguardi delle illustrazioni di queste copertine, affermando che non fossero attinenti alla storia

In questa lettera, oltre ai tragicomici risvolti della vicenda “traduzioni straniere” e all’ormai nota insofferenza del Professor Tolkien, troviamo conferma di molti degli argomenti che abbiamo già affrontato:

  1. Le Appendici, contenenti le informazioni “Sulla traduzione”, sono nuovamente citate da Tolkien come fonte sostanziale per la comprensione della natura stratificata del testo. Leggere quel capitoletto dell’Appendice F che abbiamo trattato all’inizio della rubrica sarebbe servito ai traduttori come indicazione di metodo e contestualizzazione del “gioco” linguistico/letterario, condizione preliminare e necessaria per contestualizzare la traduzione di certi nomi e di certe locuzioni, come abbiamo detto;

  2. “In base alla finzione” molti dei nomi sono tradotti in inglese dall’Ovestron o da altre lingue della Terra di Mezzo, come Rohanese e Daliano (laddove le lingue “non umane” sono lasciate intatte). Da ciò consegue che possono essere tradotte nelle lingue di destinazione delle traduzioni, in quanto hanno un significato percepibile dai lettori inglesi, e tale deve essere anche per i lettori di lingua non inglese. A questo punto Tolkien aveva già “stabilizzato” questa sua convinzione, e tendeva a ragionare nel merito delle singole scelte, senza bocciare l’operazione di traduzione tout court, ma ammettendola per casi come Strider, Entwash, Midgewater, Rivendell, Proudfoot, etc.;

  3. Alla luce di quanto appena detto sulla distinzione tra lingue umane e lingue non umane, è significativo (oltre che, come possiamo immaginare, motivo di frustrazione) che alcuni dei nomi di questa lista di proposte del traduttore svedese fossero traduzioni e interpretazioni di nomi elfici (Ered Luin, Bruinen): questo non solo avrebbe potuto ingenerare confusione, dal momento che ciascuno di questi aveva a sua volta anche un nome “Ovestron”/Inglese (Blue Mountains, Loudwater) – il quale avrebbe evidentemente dovuto avere a sua volta una traduzione svedese (ma allora, se fosse stata congruente in base al significato, come si sarebbe segnalato che per occorrenze diverse si stava utilizzando lingue diverse? E al contrario, se fosse stata difforme, come si sarebbe potuto capire che si stava identificando lo stesso elemento?), ma appiattiva anche il senso di esotismo e distanza culturale che la differenza tra le lingue utilizzate avrebbe dovuto suscitare;

  4. Tolkien si rende sempre più conto della necessità di un “prontuario”, con annotazioni sui punti più problematici per i traduttori. Si rende altresì conto della necessità di un indice dei nomi, anche non puntuale, per rintracciare le occorrenze della nomenclatura e distinguere tra “nomi da tradurre” e “nomi da non tradurre”. Questa richiesta, indirizzata a Rayner Unwin, sarà prontamente esaudita dal solerte editore, e in capo a pochi anni la “Guide to the Names” sarà una realtà. Tolkien, approfittando dell’occasione, cita anche Il Silmarillion (per il quale a maggior ragione sarebbe prima o poi servita una lista di nomi!), e scopriamo così del lavoro di ristrutturazione e parziale riscrittura che il suo magnum opus sta attraversando in questo periodo: il Later Quenta Silmarillion e gli Annali Grigi, pubblicati anni dopo da Christopher in Morgoth’s Ring (1993) e in The War of the Jewels (1994), nonché le basi testuali fondamentali anche per Il Silmarillion del 1977.

***

Non si tratta di nuovi spunti, rispetto a ciò che abbiamo già approfondito, ma di consolidamento dei concetti utili e della consapevolezza necessaria (in primis da parte dell’autore!) per trattare questi problemi. Il Signore degli Anelli costituisce una vera anomalia sul piano linguistico e semiologico, e pertanto una sfida fuori dal comune per qualsiasi traduttore. Il nostro Tolkien ne era ben consapevole, come ribadisce in questa lettera, e proprio per questo insisteva per “rendersi utile”, e fornire le minime coordinate a chi avrebbe dovuto immergersi in questo formidabile lavoro sul testo.

Alle volte la tentazione, da parte di Tolkien, di “tagliar corto”, e non costringere i traduttori a scervellarsi per trovare una strada analoga a quella percorsa da lui stesso, re-inventando tutti i nomi che avrebbero meritato una traduzione nella nuova lingua, era tale da fargli suggerire di “lasciar perdere”, come abbiamo visto nella scorsa lettera al traduttore danese e come vedremo nei prossimi spezzoni che analizzeremo: piuttosto che avere dei nomi poco credibili, che suonassero “finti”, o peggio ancora dei nomi che travisassero il significato e inventassero di sana pianta, meglio preservare il carattere di “inglesità” dei nomi originali, e accettare di tradire parzialmente l’impatto e la comprensione presso i lettori, questo doveva pensare lui.

Chiaramente, questa “resa” avveniva tanto più facilmente nel caso di lingue molto distanti dalla conoscenza e dalla capacità di “intervento” del Professore: quali consigli avrebbe mai potuto riservare al traduttore polacco, per esempio? Molto più semplice e funzionale inviargli una serie di glosse, di note esplicative, da tradurre e integrare nel testo. Tuttavia, questo approccio che tende a “sfrangiare” il senso in una serie di contributi esplicativi extra-narrativi, questo ricorso sistematico alla nota a piè di pagina, è qualcosa che esula dai compiti e dalle possibilità di una traduzione: infrange la giusta immersione, altera quell’impatto emotivo di cui parlavamo, e si appoggia eccessivamente alla lingua originale, rinunciando a trasporla e accontentandosi di “spiegarla”. Di questo Tolkien era perfettamente consapevole, e proprio per questo motivo nessuna delle due soluzioni lo soddisfaceva fino in fondo: la strada non poteva essere quella di “tradurre tutto” adulterando il significato, ma non poteva essere neanche quella di “lasciare tutto” e inondare il lettore straniero di glosse e note: il SdA non poteva diventare, in questo frangente, un testo di studio, essendo uno dei suoi pregi quello di essere un romanzo con l’aspirazione di narrare un racconto diretto e universale.

Come abbiamo già commentato, siamo di fronte a un delicatissimo e complesso equilibrio. La traduzione è un’operazione di scelte e di interpretazioni, non facile da dirimere né nei toni e nelle scelte stilistiche complessive né nei suoi dettagli più minuti, e nella restituzione di tutte le sfumature e derivazioni etimologiche, delle espressioni idiomatiche, etc. Se questo è vero per qualsiasi romanzo, per Il Signore degli Anelli è vero al quadrato!

Ad ogni modo, nel prossimo appuntamento concluderemo questa rassegna di epistole sull’argomento con gli ultimi due spezzoni, dedicati alle traduzioni polacca e spagnola.

In seguito affronteremo un po’ di “storia editoriale” del SdA e, infine, la Guide to the Names, dando così uno sguardo alla soluzione infine adottata per ovviare ai problemi che sono stati fin qui sollevati.

Alla prossima!

-Rúmil

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