SÔVAL PHÂRË – (La“Lingua Comune”) ~ Rubrica sulla Traduzione in Tolkien - EPISODIO 16: Dalla traduzione alle traduzioni (Parte 2) [OLANDA]

Cari amici, ben ritrovati al consueto appuntamento con Sôval Phârë, la rubrica dedicata alla traduzione nell’opera letteraria tolkieniana.

Proseguiamo con la rassegna di quei passi dall’epistolario del Professor Tolkien che ci aiutino a districarci nella complessa situazione delle traduzioni del Signore degli Anelli.

Ci troviamo nella seconda metà degli anni ’50. Il romanzo, che sta vivendo un ottimo successo in Regno Unito e USA, si accinge ad approdare, per la prima volta in traduzione, sul mercato olandese (1956-57).

Ricorderete la preoccupazione di Tolkien, espressa nella Lettera 188 che abbiamo trattato qualche post fa, su questa prima traduzione straniera del SdA, essendo egli memore della brutta esperienza con la traduzione svedese dello Hobbit di una decina d’anni prima.

Ecco cosa scrive Tolkien a Rayner Unwin (figlio e successore di Stanley alla guida della Allen & Unwin, nonché uno dei primissimi lettori di Tolkien da sempre) in merito ad una lista di proposte di traduzione di toponimi inviata dal traduttore olandese Max Schuchart:

Lettera 190 a Rayner Unwin, 3 luglio 1956

Spero che tu, e il settore diritti stranieri, perdonerete la lunghezza di questa mia lettera sulla traduzione olandese. La cosa (per me) è importante; mi ha molto disturbato e seccato, e mi ha dato un mucchio di lavoro in più di cui non avevo affatto bisogno in questo periodo così difficile. […]

Innanzitutto sono assolutamente contrario alla traduzione della nomenclatura (anche se fatta da persona competente). Mi chiedo perché un traduttore debba pensare di avere il diritto di fare una cosa simile. Il fatto che questo sia un mondo «immaginario» non gli dà il diritto di modificarlo a suo piacimento, anche se in pochi mesi riuscisse a creare una nuova e coerente struttura che a me ci sono voluti anni per elaborare.

Scommetto che se avessi fatto parlare gli hobbit in italiano, russo, cinese, o in altre lingue, avrebbe lasciato i nomi così com’erano. Oppure, se avessi presentato la Contea come una qualche contea agricola inventata dell’Inghilterra di oggi. Tuttavia in realtà in un paese e in un periodo immaginari, come questi, ma creati con ogni coerenza, la nomenclatura è un elemento molto più importante che in un racconto «storico». Ma, naturalmente, se lasciamo stare per un attimo la finzione di aver ambientato la storia molto tempo fa, la Contea si basa sull’Inghilterra rurale e non su un altro paese del mondo – meno che mai su un paese dell’Europa o dell’Olanda, che topograficamente è del tutto diversa. (Così diversa che, nonostante l’affinità di lingua e per molti aspetti dell’idioma, che dovrebbe facilitare il lavoro del traduttore, i suoi toponimi sono particolarmente inadatti allo scopo.) Il toponimo della Contea, per prendere il primo nome della lista, è una «parodia» di quello dell’Inghilterra rurale, così come lo è dei suoi abitanti: le due cose vanno insieme in base a un’intenzione ben precisa. Dopo tutto il libro è in inglese, scritto da un inglese, e presumibilmente anche chi desidera che il racconto e il dialogo siano riportati in un idioma comprensibile, non chiederà ad un traduttore di cercare deliberatamente di distruggere il colore locale originario. Io non chiederei una cosa simile ad un traduttore, benché sarei felice se esistesse un glossario, per quei casi (rari) in cui il significato dei nomi dei posti è essenziale. Non vorrei, in un libro che prende le mosse da una rappresentazione immaginaria dell’Olanda, incontrare Hedge, Duke’sbush, Eaglehome, oppure Applethorn nemmeno se fosse la traduzione di ‘sGravenHage, Hertogenbosch, Arnhem, o Apeldoorn! Queste traduzioni non sono inglese, sono semplicemente senza patria.

In realtà la mappa della Contea gioca una piccola parte all’interno del racconto, ed è stata fatta per lo più a scopo descrittivo. Naturalmente si basa su una certa familiarità con la storia toponomastica dell’Inghilterra, che il traduttore dimostrerebbe di non possedere (né mi sembra possieda quella dei Paesi Bassi). Non ce n’è bisogno, se la lascia stare. La strada giusta per usare la prima mappa è quella di cambiare il suo titolo in Een Deel von ‘The Shire’ [Una parte de “La Contea”] e basta; anche se naar al posto di to nel senso di To Little Delving non è sbagliato.

Il traduttore ha dato un’occhiata (lo si intuisce) alle Appendici ma non le ha utilizzate. Sembra del tutto ignaro delle difficoltà che si sta preparando per il futuro.

L’anglosassone dei Rohirrim non assomiglia molto all’olandese. In effetti sta facendo a pezzetti con la sua goffaggine un mosaico che non si è sforzato troppo di capire. […]

Il punto fondamentale che ha mancato, naturalmente, è che anche quando il nome di un posto è pienamente analizzabile da chi parla la lingua (di solito non è così) questa non è la regola. Se in una terra immaginaria vengono usati i nomi veri per i posti, o nomi che sono stati attentamente costruiti seguendo modelli familiari, questi diventano integrali, suonano veri, e tradurli in base all’analisi del loro significato non basta. I nomi Olandesi di questo olandese dovrebbero sembrare veramente olandesi. Bè, in realtà non sono affatto uno studioso di olandese, e so molto poco della toponimia particolare dell’Olanda, ma non credo che questi nomi suonino veramente olandesi. Comunque molti sono sciocchi o completamente sbagliati, e posso rendere il paragone soltanto se supponiamo di incontrare Blooming, Newtown, Lake How, Documents, Baconbury, Blushing, per poi scoprire che l’autore avesse originariamente scritto Florence, Naples, (Lake or Lago di) Como, Chartres, Hamburg, e Flushing = Vlissingen!

Allego a giustificazione di queste limitazioni, un commento dettagliato alla lista. […] Sono convinto che la strada giusta (come pure la più economica per editore e traduttore) sia quella di lasciare mappe e nomenclatura così come sono per quanto è possibile, e di sostituire alla parte meno importante delle Appendici un glossario dei nomi (con i significati ma senza riferimenti). Potrei fornirne uno io da tradurre.

Vorrei dire subito che non tollererò pasticci simili con i nomi delle persone. Nemmeno con il nome/parola «hobbit». Non voglio sentir parlare di Hompen (a proposito di questo nome non sono stato consultato) né di Hobbel. Elves, dwarfs/dwarves, trolls, sì: sono semplicemente gli equivalenti moderni dei termini corretti. Ma hobbit (e orchi) appartengono a quel mondo e devono restare così, sia che suonino olandesi o no. […]

Se pensi che mi stia comportando assurdamente, mi dispiace molto; ma non per questo cambierò idea. Quelle poche persone che sono riuscito a consultare, devo dire che condividono in pieno la mia opinione. Comunque non ho intenzione di essere trattato à la Mrs. Tiggywinkle = Poupette à l’epingle * [* Comunque Canétang = Puddleduck è molto al di sopra del suo autore!]. Non che B[eatrix] P[otter] non abbia reso infernale il lavoro dei traduttori. Anche se forse da basi più solide delle mie. Non sono un linguista, ma ne so qualcosa di nomenclatura, e l’ho studiata in modo particolare, e in realtà sono davvero molto arrabbiato.

Copertine di In de ban van de ring, prima edizione olandese del Signore degli Anelli, uscita in tre volumi tra il 1956 e il 1957

Questa missiva è una delle più interessanti che analizzeremo in questo nostro percorso. Possiamo infatti assistere a una fase molto interessante della concezione di Tolkien sulle traduzioni, che potremmo riassumere approssimativamente in tre affermazioni:

  1. se lasciamo stare per un attimo la finzione di aver ambientato la storia molto tempo fa, la Contea si basa sull’Inghilterra rurale e non su un altro paese del mondo”;

    Questo è un concetto che Tolkien ripeterà ancora, ovvero il carattere intrinsecamente inglese della sua opera. È pur vero che questa “englishry”, come la definirà lui stesso, è limitata quasi esclusivamente alla Contea, ovvero, come abbiamo avuto a definirla, il “ponte tra Mondo Primario e Mondo Secondario” all’interno del Signore degli Anelli. Non v’è dubbio che la Contea ricordi la campagna inglese, e che i provinciali e buffi hobbit siano avatar del contadino inglese medio, come poteva essere immaginato all’epoca, almeno. Tolkien afferma ciò, in quel dato momento, per suggerire come il tentativo di tradurre i nomi legati alla Contea vada a scontrarsi con questo carattere e questa identità molto profondamente radicate.

    Non resterà sempre della medesima idea, o meglio, arriverà in seguito a una conclusione più articolata: d’altronde “la finzione di aver ambientato la storia molto tempo fa” è un po’ troppo significativa per essere del tutto “lasciata stare”!

    Tolkien deciderà infine di dare maggiore rilevanza all’idea sottesa dalla finzione, ovvero quella secondo cui, esattamente come sostiene nell’Appendice F, anche il testo in inglese è a sua volta una “traduzione”, e dunque tanto vale lasciare che i nomi in inglese vengano tradotti, laddove per questi si possa risalire a un significato ben preciso e farli sembrare comunque dei nomi realistici nella lingua di destinazione (vedi oltre).

  2. Se in una terra immaginaria vengono usati i nomi veri per i posti, o nomi che sono stati attentamente costruiti seguendo modelli familiari, questi diventano integrali, suonano veri, e tradurli in base all’analisi del loro significato non basta. I nomi Olandesi di questo olandese dovrebbero sembrare veramente olandesi.”;

    Per Tolkien non era accettabile che i nomi risultassero “non credibili”, “fantasy”, all’interno delle traduzioni della propria opera. Avendo impiegato molti sforzi per evitare l’effetto “Napoli [Naples] > Newtown” nei toponimi da lui coniati (o nella personal nomenclature, come la chiama lui), teneva particolarmente a che questo carattere di verosimiglianza fosse preservato anche nelle traduzioni, e dunque che “i nomi Olandesi di questo olandese” sembrassero “veramente olandesi”.

    In quest’ottica, ciascuno dei nomi richiederebbe una propria “procedura”, affinché dal nome tradotto sia possibile risalire all’eventuale significato e tuttavia il nome non si limiti a una piana restituzione di esso (dato che molto raramente un nome proprio si comporta così, come argomenta molto bene Tolkien). Egli arriverà dunque all’idea, già paventata in questa lettera (in cui però parla ancora soltanto di un “glossario dei nomi, con i significati ma senza riferimenti”), di fornire ai traduttori indicazioni puntuali, per consentire loro di creare nomi (toponimi, nomi di persona, etc) che rispettino il significato originale che hanno in inglese ma che “suonino” verosimili nella rispettiva lingua, e dunque non sembrino semplicemente dei calchi superficiali. Dunque un toponimo dovrà assomigliare, ovvero “avere lo stile”, dei toponimi olandesi per la traduzione olandese, dei toponimi italiani per la traduzione italiana, etc.

    Un nome proprio di persona (per esempio un cognome hobbit) non dovrebbe “stonare” come cognome in una qualsiasi lingua di destinazione per le rispettive traduzioni, pur preservando il suo significato. La cosa è molto semplice quando si tratta di nomi senza un vero e proprio significato (come Took, vd. Appendice F): in casi come questo basterà “adattare” foneticamente e ortograficamente il nome alle regole della lingua in questione, se lo si ritiene necessario (per esempio Tuc in alcune traduzioni italiane); la faccenda si complica leggermente quando un significato, seppur vago, esiste (come in Grubb, Hornblower, Bracegirdle, etc): in tal caso bisognerà far conciliare i due aspetti, e trovare degli elementi estetici, come suffissi o desinenze particolari, che “facciano suonare” il cognome in questione come un cognome reale per quella lingua, pur preservando il significato. Ad esempio Grubb in una delle traduzioni italiane diventa Scavieri.

  3. Sono convinto che la strada giusta (come pure la più economica per editore e traduttore) sia quella di lasciare mappe e nomenclatura così come sono per quanto è possibile, e di sostituire alla parte meno importante delle Appendici un glossario dei nomi (con i significati ma senza riferimenti).”

    A causa di tutte le difficoltà che abbiamo menzionato, inizialmente dunque la posizione di Tolkien era questa: lasciare tutto non tradotto, per quanto possibile. Si tratta chiaramente di una soluzione di comodo, temporanea, e sicuramente non ideale. Tuttavia in questa fase Tolkien riteneva appunto che questa fosse “la strada giusta”. Sicuramente la più semplice da percorrere da un punto di vista pratico ed economico, ma sono certo che non fosse la più soddisfacente dal punto di vista concettuale. Una delle complicazioni sarebbe stata la seguente: la specifica “per quanto è possibile” implica che di alcuni nomi il significato fosse effettivamente essenziale per la storia, e dunque dovessero esser necessariamente tradotti per la comprensione, e non semplicemente “fare colore”. Poco prima, Tolkien sostiene che i casi in cui il significato dei nomi è essenziale siano “rari”, è questo è senz’altro vero (mi vengono in mente ad esempio “Oakenshield”, “Mirrormere”, “Strider”, etc) tuttavia, per quanto una minoranza, se fossero gli unici tradotti in mezzo al resto lasciati intatti in inglese, questo minerebbe non poco la coerenza e coesione dell’ambientazione e del testo. Motivo per cui Tolkien stesso tornerà in futuro su questa questione, che lo impegnerà per un decennio e più, e riterrà opportuno un cambio di strategia. Assodato che un fattore di lost in translation esiste ed esisterà sempre, è maggiore il danno che può procurare una non-translation, specialmente se uno dei punti di forza di quest’opera risiede nella cura per i dettagli della sua ambientazione. Tolkien si rendeva conto che, non potendo pretendere da altri la sua medesima attenzione maniacale, era più conveniente “rinunciare in partenza” all’unicità di ciascuna traduzione, e giocare sul fatto che si trattasse di una storia fondamentalmente “inglese”, il che era peraltro vero. Cionondimeno alla lunga questa “soluzione di comodo” non poteva essere sostenibile, sicuramente non per lingue molto distanti dall’inglese che prima o poi avrebbero voluto avere pure loro la propria versione del Signore degli Anelli.

    Ciò che conta in una traduzione, infatti, non è la restituzione letterale di ogni parola e di ogni nome, che questa sia ottenuta più efficacemente traducendo o mantenendo l’originale poco cambia, bensì la preservazione dell’impatto emotivo e narrativo sul lettore della lingua di destinazione, rispetto al lettore della lingua originale. Non sarà mai un rapporto congruente, l’impatto non potrà mai essere preservato al 100%, per infinite ragioni culturali, che solo in parte risiedono nel fattore linguistico (nel precedente post citavamo non a caso Umberto Eco), ma la “tensione” deve essere appunto questa: lavoro del traduttore è dunque ricostruire mentalmente cosa prova un lettore madrelingua leggendo l’opera e tentare di riprodurre il medesimo impatto per i lettori della propria lingua attraverso la sua proposta di traduzione. Va da sé che si tratta di un compito particolarmente difficile, nel quale, come dicevamo un paio di episodi fa, non possono esistere regole o principi assoluti, ma si può soltanto essere guidati dal buon senso, dal ragionamento fondato su una conoscenza profonda dell’opera, e tutto questo inevitabilmente “filtrato” dalla soggettività del traduttore, che si assume la responsabilità di essere un “surrogato dell’autore”.

***

Aver presentato questa lettera, con la sua meravigliosa complessità, serve a farci comprendere come l’intera questione della traduzione, lungi dall’essere di semplice risoluzione, è una delle più controverse che Tolkien stesso abbia mai affrontato. Tant’è che, come abbiamo anticipato, in pochi anni avrebbe cambiato parzialmente idea, componendo appunto la “Guida ai nomi”, in cui, escludendo una maggioranza di nomi da non tradurre (specialmente nomi Sindarin Quenya e affini), il nostro buon Professore propone dei metodi d’analisi dei propri nomi, delle glosse con spiegazioni etimologiche, dei suggerimenti su come integrare queste informazioni in nomenclatura credibile, illustrando a mo’ di esempio il procedimento seguito da lui e invitando i traduttori a fare altrettanto con la propria lingua.

Questo lavoro risulta molto più esaustivo e “definitivo” rispetto a un mero “glossario dei nomi (con i significati ma senza riferimenti)” che Tolkien proponeva come “toppa” al problema che gli si presentava con la proposta di traduzione di Schuchart. La lettura del Signore degli Anelli sarebbe risultata molto più faticosa, in traduzione, se questa prima linea di condotta fosse diventata quella definitiva: ogni nome avrebbe dovuto essere “scansionato” con glossario alla mano, e avrebbe decisamente perso qualunque forza espressiva e annichilito l’impatto sul lettore, per nulla paragonabile a quello di un lettore dell’opera originale.

Se insisto su questo aspetto è perché voglio condividere una riflessione, e un monito, con tutti coloro che sostengono come preferibile in assoluto la scelta di non tradurre nulla.

Chi avanza simili proposte, non si rende conto che in questo modo non solo verrebbe a mancare il senso stesso della fruizione di un’opera tradotta (a questo punto meglio fruirla interamente nella sua lingua originale!), ma si minerebbe la coesione estetica del testo.

E sappiamo benissimo che l’elemento estetico è, per l’opera tolkieniana, di importanza a dir poco primaria.

Nel prossimo appuntamento proseguiremo con la nostra rassegna di epistole, con un “blastaggio” ancora più intenso, stavolta diretto al traduttore svedese. Non mancate!

-Rúmil

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