SÔVAL PHÂRË – (La“Lingua Comune”) ~ Rubrica sulla Traduzione in Tolkien - EPISODIO 15: Dalla traduzione alle traduzioni (Parte 1)

Cari amici, ben ritrovati al consueto appuntamento con Sôval Phârë, la rubrica dedicata alla traduzione nell’opera letteraria tolkieniana.

Con il post di oggi inizia una nuova fase di questa rubrica: dopo aver ripercorso (episodi 7-14), attraverso le lettere di Tolkien, la sua visione sui temi della traduzione, dell’adattamento, della coniazione dei nomi, ci accingiamo oggi a introdurre un nuovo macro-argomento correlato: le traduzioni delle opere del Professore per le edizioni straniere.

E per introdurlo prenderemo nuovamente le mosse dalle sue dichiarazioni e considerazioni, espresse nelle Lettere (per esempio agli editori inglesi, i quali dovevano mediare con case editrici e traduttori di altre nazionalità), e non solo.

Non stupirà nessuno il fatto che, essendo per lui l’aspetto linguistico della propria produzione così centrale, Tolkien fosse particolarmente attento alle localizzazioni straniere dei propri romanzi. Mentre lui era ancora in vita Lo Hobbit fu tradotto e distribuito in una decina di lingue oltre all’inglese (la prima traduzione italiana, di Elena Jeronimidis Conte, risale all’anno della morte del Professore, il 1973); lo stesso vale per Il Signore degli Anelli, anche se il suo successo commerciale risultò ancora più folgorante.

Di entrambi i romanzi non si sono mai più esaurite, nel tempo, le edizioni (e ri-edizioni) straniere e le proposte di traduzione, fatto che è sempre indice di grande “vitalità” di un testo, nonché della sua capacità di continuare a parlare a nuove generazioni di lettori, di avere caratteristiche di “universalità” e di accattivare pubblici culturalmente e temporalmente molto distanti tra loro.

Allo stato attuale Lo Hobbit è stato tradotto e distribuito in circa 66 lingue (comprese esperanto, latino, cinese tradizionale e yiddish), mentre Il Signore degli Anelli può contare ben 87 traduzioni in 57 lingue, distribuite in tutto il mondo. Come è noto, entrambi i romanzi sono campioni best-seller (rispettivamente 100 e 150 milioni di copie vendute, a spanne), sommando tutte queste edizioni straniere e le vendite in lingua originale – sicuramente la storia editoriale del Signore degli Anelli, specialmente l’episodio della pubblicazione negli USA e delle edizioni Ace Books, meriterebbe un post ad hoc. Chissà che in futuro non si possa parlarne, dato che si tratta di una vicenda molto affascinante.

Numerose edizioni straniere del Signore degli Anelli, all’interno della mostra dedicata a J.R.R. Tolkien “Tolkien Uomo, Professore, Autore” tenutasi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma (16/11/2023 – 11/02/2024) e attualmente ospitata dal Palazzo Reale di Napoli (16/03/2024 – 02/07/2024). Foto di Federica Artibani per la testata online ilturismochenontiaspetti.it

Ma tornando a noi: come mai ci interessa riflettere sulle traduzioni di queste opere, tanto amate dal pubblico, e vagliare le dichiarazioni di Tolkien a riguardo?

La ragione è che queste riflessioni aggiungono elementi di grande interesse al nostro discorso sulla traduzione come concetto; mostrano come tutto ciò che abbiamo finora esposto sulla traduzione interna all’opera, per come Tolkien vedeva l’intera faccenda, andasse applicato il più possibile (e dunque con le enormi e inevitabili difficoltà di non poter più usufruire della lingua inglese, né di preservare interamente il “gioco” interlinguistico con anglosassone e norreno che abbiamo illustrato in precedenza) anche alle altre lingue, presenti all’interno delle edizioni olandesi, svedesi, polacche, tedesche, danesi, italiane, portoghesi, etc.

Tolkien conosceva (perché aveva studiato o in parte praticato) un gran numero di lingue, specialmente del ramo germanico, pertanto i suoi feedback non erano esattamente da buttar via; tuttavia non dobbiamo commettere l’errore di prendere le sue parole come indicazioni dirette sulle scelte traduttive: il più delle volte il Professore di Oxford si esprimeva sui principi dietro alle scelte specifiche, oppure le sue “lamentele” potevano essere intese come un monito a considerare lo spessore di studio e stratificazione etimologica presente nella propria opera, e l’urgenza e il desiderio che queste venissero preservate anche per i lettori di lingua non-inglese.

Fin dagli anni ’40 i suoi editori cominciarono a interpellarlo riguardo alle edizioni straniere delle sue opere, e Tolkien, che non prendeva nulla alla leggera (!) si lanciò alle volte in un vero e proprio coaching, cercando di giungere a una quadra tra le esigenze delle lingue di destinazione e le peculiarità della lingua originale e della complessità dell’impianto che intorno ad essa ruotava. Questo processo non fu affatto lineare o progressivo: man mano che Tolkien si imbatteva in nuove complicazioni (per esempio osservando criticità e fraintendimenti “metodologici” all’interno delle proposte di traduzione che gli venivano sottoposte), egli cambiò idea più di una volta su diversi aspetti, per esempio sull’opportunità o meno di lasciare che i traduttori di altri paesi traducessero i nomi propri, quali nomi includere tra quelli da mantenere intoccati, se fosse o meno auspicabile preservare il carattere di “Englishry” di parte dell’ambientazione…

Tutte queste riflessioni, spesso assolutamente non univoche, sarebbero infine confluite nel fondamentale documento della Guide to the Names in The Lord of the Rings (conosciuta anche semplicemente come Nomenclature), scritto da Tolkien alla fine degli anni ’50, per molti anni utilizzato come “libretto di istruzioni” per i traduttori e fornito personalmente dalla Allen & Unwin in fotocopia alle case editrici responsabili delle traduzioni del Signore degli Anelli nei rispettivi paesi. Nel 1975, ovvero dopo la morte di Tolkien, questo documento fu editato e pubblicato da Christopher in A Tolkien Compass.

Per una completa ricostruzione di questo percorso, molto affascinante, rimando al capitolo dedicato alla Nomenclature in The Lord of the Rings: A Reader’s Companion di Wayne G. Hammond e Christina Skull (pagg. 750 – 781), in coda al quale è riprodotta anche la stessa Nomenclature. Ad ogni modo, approfondiremo noi stessi in futuro, quando dedicheremo a questo testo uno o più post.

Su una cosa Tolkien fu certo fin da subito: delle parole e dei nomi in lingue del Mondo Secondario (Quenya, Sindarin, Khuzdul, Lingua Nera, etc) NULLA avrebbe dovuto esser tradotto, esattamente come non era tradotto in inglese nell’edizione originale. Per quanto riguarda i nomi in anglosassone e norreno, riteneva (a ragione) che il tentativo di “adattare” i rapporti che intercorrevano tra queste lingue e l’inglese in paralleli costrutti da ricavare di volta in volta intorno alle rispettive lingue di destinazione sarebbe stato estremamente difficile e penoso, se non impossibile e perfino indesiderabile. Ecco perché nella stragrande maggioranza dei casi i nomi e le espressioni in anglosassone e norreno sono stati lasciati intatti nelle traduzioni. La “Guida ai nomi” dunque serviva proprio a ragionare caso per caso, fornendo ai traduttori gli strumenti etimologici e metodologici su tutti i nomi “tradotti” (si intende, dall’Ovestron e dalle altre lingue Umaniche che compongono fittiziamente il testo) e lasciando dunque all’iniziativa e al buon senso di ciascun traduttore le singole scelte.

Sto premettendo tutto questo per sgombrare preventivamente il campo da eventuali critiche sull’“intransigenza” o “eccessiva pignoleria” dell’autore in simili questioni: non si trattava – non si è mai trattato – di diktat, di imposizioni, di ingerenze nel lavoro dei traduttori (che sicuramente conoscevano la propria madrelingua meglio di quanto un singolo uomo, benché dalla cultura mostruosamente vasta come J. R. R. Tolkien, poteva sperare di conoscere).

Si trattava, al contrario, di una serie di insight, di utilità, di approfondimenti, di informazioni altrimenti difficili da districare o da riconoscere all’interno del testo, o in alcuni casi oscure e non desumibili, spesso atte a spiegare perché fosse stata scelta una specifica parola, o un nome o una radice ben precisi. Ripeto: quando tratteremo direttamente questo testo farò degli esempi puntuali per illustrare quanto dico.

Intanto vorrei proporre di seguito il testo della Lettera 188 (la sua porzione pubblicata, per lo meno), in cui, tra le primissime volte in cui questo problema viene affrontato, Tolkien si confronta con i suoi editori sul giusto da farsi per le traduzioni straniere. Il casus era l’accordo, appena sottoscritto, per la traduzione olandese del Signore degli Anelli. Tolkien non era nuovo a traduzioni straniere di una sua opera (la prima in assoluto era stata la traduzione svedese dello Hobbit, “Hompen” [1947], che Tolkien riteneva piuttosto brutta, come ricorda anche in questa circostanza), e tuttavia Il Signore degli Anelli, a causa della sua mole e della sua complessità, poneva una serie di problematiche e di complicazioni che rendevano questo episodio quasi una novità assoluta.

Già da qui vediamo come Tolkien fosse a dir poco consapevole delle enormi difficoltà dell’impresa, e si dicesse disponibile a fornire gli strumenti interpretativi necessari, che di lì a poco sarebbero stati appunto messi a disposizione.

Lettera 188 alla Allen & Unwin, 3 aprile 1956

È naturale che desidero che voi facciate ogni sforzo riguardo a edizioni straniere. […] È comunque altrettanto naturale che un autore, finché è ancora vivo, si preoccupi profondamente e immediatamente della traduzione. E in questo caso, sfortunatamente, l’autore è anche un linguista di professione, un pedante professore, che ha relazioni e amicizia personale con i principali studiosi di inglese del continente. […] La traduzione del Signore degli Anelli si dimostrerà un compito difficile, e non vedo come possa essere svolta soddisfacentemente senza l’assistenza dell’autore. * [* Con «assistenza» non intendo naturalmente interferenza, anche se desidererei avere l’opportunità di valutare degli esempi. La mia conoscenza linguistica raramente arriva fino alla critica dei dettagli, pur sottolineando gli errori evidenti e le eccessive libertà. Ma questo testo presenta molte, particolari difficoltà. Per citarne una: c’è un certo numero di parole che non si trovano nei dizionari, o che richiedono una conoscenza dell’inglese antico. Per problemi come questi, e per altri che inevitabilmente si presenteranno, l’autore sarebbe la più soddisfacente, e la più rapida, fonte di informazione.] Un’assistenza che io sono pronto a dare, se richiesta.

Vorrei evitare di ripetere l’esperienza della traduzione in svedese dello Hobbit. Ho scoperto che si erano presi ingiustificate libertà con il testo e altri dettagli, senza consultarmi e senza chiedere l’approvazione; la traduzione venne anche criticata negativamente da un esperto svedese, a cui l’avevo sottoposta e che conosceva l’originale. Sono ancora più geloso nei confronti del testo (in tutti i suoi dettagli) del Signore degli Anelli. Non approverò nessuna modifica, grande o piccola, nessun riarrangiamento, nessun taglio del testo – a meno che non siano stati fatti da me o sotto la mia diretta supervisione. Spero veramente che si terrà conto di questa mia preoccupazione.

Questa lettera è così chiara che non necessita di alcuna analisi, tuttavia vorrei concentrare le mie prossime considerazioni su un aspetto: Tolkien qui ribadisce con garbata fermezza la propria “paternità” sull’opera, e invita a considerare se stesso come la fonte più affidabile per sciogliere dubbi ed elargire informazioni. Ciò è decisamente lecito da parte sua! che così tanto tempo ed energie ha investito per realizzare il romanzo (14 anni di stesura travagliata, più altri 3-4 per la monumentale revisione), dunque conosce a menadito gli eventuali inciampi in cui potrebbero incappare i traduttori nell’affrontare la sua opera, e sarebbe senz’altro capace di prevenirne alcuni, magari non arrivando “fino alla critica dei dettagli” (la qual cosa presupporrebbe una conoscenza della lingua di destinazione pari ad un madrelingua), ma sicuramente sarebbe in grado di identificare “gli errori evidenti e le eccessive libertà”.

Tolkien a un certo punto parla addirittura di “gelosia” nei confronti del testo, dei suoi dettagli, delle sue caratteristiche, che desidera vengano preservate il più possibile per tutti i lettori che si imbatteranno nel suo romanzo.

Mi sento di dire che questo atteggiamento, più che legittima “difesa” di qualunque autore contro eventuali rischi di travisamenti e banalizzazioni, specialmente quando deve “separarsi dalla sua creatura” (ovvero “farla nascere presso il pubblico”, in questo caso un pubblico di una lingua diversa dalla propria), nel caso di Tolkien vada, ancora più che per altri autori, compreso e “giustificato”: non si tratta di una “gelosia” egoistica, ma della preoccupazione che la propria opera potesse non essere compresa fino in fondo, o perfino non interessare, magari tacciata di essere il “romanzo di un polveroso e pedante filologo prestato alla letteratura”, oppure, al contrario, una “bagattella fantasy, gigantesco spreco da parte di un filologo che meritava ben altra carriera che quella di un volgare romanziere”.

Probabilmente Tolkien, ben conscio di questo genere di critiche rivolte al suo lavoro, da un lato e dall’altro, teneva a dimostrare come il carattere narrativo e il carattere linguistico (le due facce della stessa medaglia del mito!) fossero ciascuno fondamentale per l’altro.

È come se, quando ci dice di essere “geloso nei confronti del testo del Signore degli Anelli”, volesse in realtà dirci: “Vi prego, non sottovalutate la portata linguistica di questo romanzo, solo perché inserita in un contesto narrativo: le due cose si tengono. E dunque vorrei che il linguaggio utilizzato fosse trasposto con la stessa cura, o quasi, che io ho profuso nella sua realizzazione, perché la parola “Hobbit” è altrettanto importante quanto il suo referente e il suo ruolo nella storia”.

Ad ogni modo, tornando alla lettera che abbiamo riportato: certo! Sul linguaggio Tolkien era estremamente “geloso”, e attento che venisse restituito nella forma più vicina possibile all’originale. Non si trattava, ribadisco, di sterile pignoleria o di capriccio: la sua attenzione per i dettagli era sostanziale e non superficiale. Quando parla di “parole che non si trovano nei dizionari” non sta annunciando di voler complicare il lavoro dei traduttori, bensì di volerlo agevolare.

Lui è ovviamente il più affidabile (e comodo) depositario di quella conoscenza: tentare di scavalcare il suo consiglio e le informazioni con cui può integrare la ricerca che qualunque traduttore compie già per conto proprio, sarebbe decisamente poco saggio.

Aggiungo che, nel corso dei decenni che ci separano da Tolkien, la pratica della traduzione si è evoluta proprio in una direzione di maggiore restituzione filologica dell’opera, in alcuni casi a scapito della scorrevolezza “letteraria”, per così dire. Pertanto oggi più che in passato, probabilmente, siamo in grado di intendere le preoccupazioni di Tolkien, laddove un tempo financo la categoria dei traduttori non avrebbe forse soppesato sufficientemente i suoi timori, proprio perché la traduzione come pratica era ancora vista in maniera mediamente diversa, e produceva “esperimenti” o vera e propria “ricerca” che oggi difficilmente potremmo ricondurre a un concetto di traduzione “rigorosa”. Penso ad esempio alle cosiddette “traduzioni d’autore” o alle “traduzioni poetiche”, tipicamente adattamenti più “liberi” rispetto alla restituzione 1:1 del testo, in quanto soggette allo stile dei traduttori che in questo caso sono a loro volta autori/poeti (vedi i vari Quasimodo, Pavese, Montale, Pasolini, Caproni, etc).

Tanto queste traduzioni più “letterarie” tanto quelle più “professionali” hanno un indiscusso valore, si tratta solo di decidere a cosa si conferisce maggiore priorità o importanza: nessuno di noi ha dubbi sulla squisita fattura letteraria della traduzione dell’Iliade di Vincenzo Monti, ma ritengo che, ugualmente, nessuno abbia dubbi sulla maggiore aderenza filologica al testo nella versione di Rosa Calzecchi Onesti.

Ebbene, anche per quanto riguarda le traduzioni di Tolkien, viaggeremo sempre su questa (apparente) dicotomia, cercheremo di comprendere i vantaggi dell’uno e dell’altro approccio, e ci interrogheremo sulla giusta conciliazione di questi due fattori: spessore letterario e aderenza filologica. Non ha senso, nell’ottica di noi lettori odierni, far prevalere l’una o l’altra nel giudizio su una traduzione (e su un’opera), ma bisogna considerare che, agli occhi di un qualsiasi lettore, che prenda per la prima volta in mano un testo, quella traduzione È l’opera, e non semplicemente una sua traduzione. Assolve per lui le stesse funzioni che per un lettore in lingua originale sono assolte dall’opera originale, nulla di più e nulla di meno.

Ecco perché la traduzione è un testo di servizio così importante, dalla così grande responsabilità. Ecco perché, forse, l’aspetto letterario può contare su una sorta di “precedenza”, pur avendo pari importanza rispetto a quella che definiamo “fedeltà al testo”. E, mi sembra chiaro, nessuno di questi due elementi deve venir meno, altrimenti non avremmo alcuna “garanzia” che stiamo leggendo un valido “sostituto” dell’opera, e non semplicemente una sua “interpretazione” più o meno libera. La traduzione deve sì INTERPRETARE, ma nell’accezione originaria del termine: “intendere e spiegare nel suo vero significato il pensiero d’uno scritto o d’un discorso”, senza superfetazioni o aggiunte di sorta, né stilistiche né di contenuto.

Certamente, per quanto riguarda lo “stile”, al traduttore devono esser concesse delle licenze, laddove uno stilema del testo originale possa esser adattato solo attraverso una sua libera reinterpretazione nella lingua di destinazione, ma sarebbe il caso di ridurre al minimo questi interventi. In fondo, come vale per tutti i “mestieri” che coinvolgono pesantemente la sfera soggettiva, non possono esistere regole o “vie giuste”: tradurre un’opera letteraria non sarà mai qualcosa di riducibile al fatto meramente tecnico, soprattutto perché questo non è sufficiente a comprenderla!

Dunque, per riassumere, una traduzione dovrà essere fedele ma non pedissequa, filtrata, ma non adulterata, dalla soggettività del traduttore, il quale adopererà la propria intelligenza e il proprio buon gusto non tanto per produrre un testo letterario semplicemente bello, ma per comprendere a fondo ciò che intende dire l’autore, e avvicinare a quella medesima comprensione (dalla sua posizione privilegiata, di frequentazione così approfondita del testo e dell’universo interiore del suo autore) anche gli altri lettori.

Tutto ciò che abbiamo detto fin qui dovrebbe far comprendere l’estrema complessità di questa operazione, e farci empatizzare un pochino con i poveri traduttori! Qualsiasi sia la loro tecnica, la loro sensibilità, i loro risultati. L’equilibrio necessario per una buona traduzione è un’armonia aurea talmente difficile da raggiungere che, in casi estremi come per Tolkien, può sembrare addirittura inafferrabile.

Chiedo scusa per questa lunga parentesi, ma sono tutte considerazioni che ci saranno utili a dare un contesto agli esempi di traduzione che affronteremo nel seguito di questa rubrica, e a comprendere meglio, forse, il punto di vista di Tolkien sulla questione.

A proposito del suo particolarissimo punto di vista, avendo parlato oggi di “gelosia”, vorrei nel prossimo appuntamento riaprire brevemente il discorso, e spezzare una lancia per il buon Professore, dimostrando, se mi riesce, di come la sua visione complessiva fosse in effetti tutt’altro che “gelosa”, almeno per come noi concepiamo il significato del termine.

Si parlerà dunque di letteratura, creatività, autorialità, e tante altre cose.

Alla prossima!

-Rúmil

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Back To Top
Racconti di Tolkien