SÔVAL PHÂRË – (La“Lingua Comune”) ~ Rubrica sulla Traduzione in Tolkien - EPISODIO 14: la Lettera 297 e la coniazione dei nomi (Parte 4)

Cari amici, ben ritrovati al consueto appuntamento con Sôval Phârë, la rubrica dedicata alla traduzione nell’opera letteraria tolkieniana.

Ci avviamo alla conclusione della Lettera 297 e del suo commentario, fino all’ultimo prolifico di spunti sul tema della traduzione dei nomi, nonché della loro genesi e invenzione.

Nel seguente estratto Tolkien fa riferimento a un paio di casi (“Erech”, “Nazg”) in cui si è reso conto, a posteriori, di aver inconsapevolmente “preso in prestito” suggestioni, evidentemente sepolte nella sua memoria, da parole o nomi realmente esistenti (nella fattispecie, rispettivamente, la città mesopotamica Erech e la parola gaelica nasc), che lui ha istintivamente “carpito” come “sequenze di suoni” adattandole alle regole linguistiche e alle radici del proprio costrutto, e solo successivamente deve essersi accorto o ricordato non solo dell’esistenza di termini reali dal valore fonoestetico molto simile, se non identico, ma anche di una vaga correlazione nel significato, cosa che forse ha inconsciamente determinato il suo andare a “ripescarli” da letture e studi pregressi.

Inoltre accenna qui al “caso speciale” di Eärendil. Speciale non solo in quanto uno dei primissimi nomi della sua mitologia, se non il primo in assoluto (la prima redazione della poesia Éala Éarendel Engla Beorhtast, che abbiamo proposto in questo post, risale al settembre 1914), ma anche a causa del significato stavolta sì assolutamente e non casualmente correlato tra la “fonte” del nome (il già citato poema anglosassone Crist I, del poeta Cynewulf [IX secolo], riportato nel Libro di Exeter) e il ruolo della sua controparte mitologica interna al Legendarium.

Passo adesso all’estratto, ultimo di questa “sotto-rubrica”:

Lettera 297 (abbozzi) a Mr. Rang, agosto 1967 (continuazione)

Posso citare due casi in cui non sono stato consapevole, nel momento di usare le parole, di averle prese in prestito ma che è molto probabile, anche se non certo, che si tratti di echi.

Erech, il posto dove Isildur pose la pietra del patto. Questo naturalmente si adatta allo stile della nomenclatura prevalentemente Sindarin di Gondor (altrimenti non l’avrei usato), così come si adatta storicamente, anche se era, come conviene supporre, un nome pre-Numenoreano il cui significato si è perso da molto tempo. Naturalmente dato che, in quanto interessato alle cose antiche e specialmente alla storia dei linguaggi e della scrittura, sapevo e avevo letto parecchio sulla Mesopotamia, avrei dovuto sapere che Erech era il nome della città più antica. Tuttavia nel periodo in cui stavo scrivendo Il Signore degli Anelli, Libro V, capitoli II e IX (originariamente un continuum narrativo, ma divisi per ovvi motivi di costruzione) e in cui stavo escogitando una leggenda per spiegare la separazione di Aragorn da Gandalf e la sua scomparsa e il ritorno inatteso, ero probabilmente più influenzato dall’importante elemento er (in elfico) = «uno, singolo, solo». In ogni caso, il fatto che Erech sia un nome famoso non ha importanza per quanto riguarda Il Signore degli Anelli e non si deve dedurre che io pensassi a dei collegamenti tra la Mesopotamia e i Numenoreani o i loro predecessori.

Nazg: termine che nella Lingua Nera significa «anello». Questo vocabolo è stato creato in modo da distinguersi come stile e come contenuto fonetico da altre parole con lo stesso significato in elfico o in altri linguaggi reali più familiari: inglese, latino, greco, etc. Benché possa succedere che si verifichino delle somiglianze (di forma e senso) con lingue reali non collegate, e sia impossibile evitare queste somiglianze (se uno cerca di evitarle – io no) quando si inventano linguaggi immaginari con un numero limitato di suoni, è tuttavia curioso osservare che nasc è il termine che indica «anello» in gaelico (irlandese: lo scozzese di solito scrive nasg). Si adatta bene anche al significato, dato che significa, e probabilmente significava anche originariamente, «vincolo», e può essere usato per «obbligazione». Tuttavia divenni consapevole della sua esistenza solo di recente, cercando qualcos’altro in un dizionario gaelico. Non mi piace molto il gaelico, come lingua, dall’antico irlandese in poi, ma è di grande interesse storico e filologico e in tempi diversi l’ho studiato. (Ahimè! con molto poco successo.) Quindi è probabile che nazg derivi in realtà da esso, e questo breve, duro e chiaro vocabolo, che emerge da quello che a me (un estraneo non molto ben disposto) è sempre sembrato un linguaggio molle, si è conficcato in qualche angolo della mia memoria linguistica.

Il nome più importante in questo caso è Eärendil. Questo nome è infatti (com’è ovvio) derivato dall’anglosassone éarendel. Quando ho iniziato a studiare seriamente l’anglosassone (1913) – avevo cominciato da ragazzo, per passione, invece di studiare, come avrei dovuto, latino e greco – sono stato colpito dalla grande bellezza di questa parola (o nome), del tutto coerente con lo stile solito dell’anglosassone, ma eufonico in modo straordinario per quella lingua piacevole, ma non gradevole all’orecchio. Inoltre la sua forma suggerisce con forza che in origine fosse un nome proprio e non un nome comune. Questo è evidenziato dalle forme collegate in altre lingue germaniche; in base alle quali, tra la confusione e lo svilimento delle tradizioni successive, sembra certo che appartenesse ai miti del cielo e che fosse il nome di una stella o di un gruppo di stelle. Per me, gli usi * [* La prima forma che l’anglosassone registri è earendil (oer-), in seguito earendel, eorendel. Per lo più in note su jubar = leoma; o anche su aurora. Ma anche in Blick[ling] Hom[ilies] 163, se níwa éorendel, riferito a san Giovanni Battista; e in Crist 104, éala! Éarendel engla beorhtast ofer middangeard monnum sended. È spesso usato come riferimento a Cristo (o a Maria), ma il paragone con Bl. Homs. Suggerisce che si riferisce per lo più a San Giovanni Battista. I versi si riferiscono ad un araldo, un messaggero divino, chiaramente non il soðfæsta sunnan leoma = Cristo.] che ne fa l’anglosassone sembrano semplicemente indicare che si trattava di una stella che preannunciava l’alba (almeno nella tradizione inglese): quella che noi oggi chiamiamo Venere, la stella del mattino che si può vedere brillare all’alba, prima del sorgere del sole. Questa, comunque, è una mia interpretazione. Prima del 1914 scrissi una poesia su Earendel che fa salpare la sua nave come una lucente scintilla dai porti del sole. L’ho adottato nella mia mitologia – in cui è diventato un personaggio principale come marinaio e come stella annunciatrice, e simbolo di speranza per gli uomini. Aiya Earendil Elenion Ancalima (II, 869), «salute Earendil, la più brillante fra le stelle», deriva alla lontana da Éalá Éarendel engla beorhtast. Ma il nome non poteva essere adottato così com’era: doveva essere adattato alla situazione linguistica elfica, nel momento in cui si creava un posto nella leggenda per questa persona. Da questo, all’inizio della storia dell’elfico, che stava cominciando, dopo molte false partenze nella mia giovinezza, a prendere una forma definita all’epoca dell’adozione del nome, sorse alla fine (a) il tema dell’Elfico Comune *ayar, «Mare» ** [** In Quenya ear, in Sindarin aear.], applicato originariamente al grande mare dell’Occidente, che si stendeva tra la Terra di Mezzo e Aman, il regno sacro dei Valar; e (b) l’elemento, o base verbale, (n)dil, «amare, essere devoto a» – che descriveva l’attitudine di qualcuno verso una persona, una cosa, un’occupazione a cui uno è devoto per la sua stessa salvezza*** [*** Questo dà anche la chiave per spiegare un gran numero di altri nomi elfici in Quenya, come Elendil, «amico degli elfi» (eled + ndil), Valandil, Mardil il Buon Governatore, «devoto alla Casa dei re», Meneldil, «astronomo», etc. Nei nomi un significato simile ha -(n)dur, anche se più precisamente significa «servire» un padrone legittimo: in Quenya arandil = «amico del re, realista», oltre ad arandur = «servitore del re, ministro». Ma questi spesso coincidono: la relazione di Sam nei confronti di Frodo può essere definita dal punto di vista dello status con -ndur, dal punto di vista psicologico con -ndil. Da paragonare con le varianti a Earendur, «marinaio (di professione)».].

[A questo punto della lettera, Tolkien riassume a grandi linee i miti di Gondolin ed Earendil, illustrando il loro legame con Il Signore degli Anelli. A questo proposito chiosa così:]

A queste leggende si fa intenzionalmente riferimento nel vol. I come a quelle principali che fanno da sfondo al Signore degli Anelli, spiegando le relazioni tra elfi, uomini e Valar (i guardiani angelici) e formando il fondamentale legame con Il Silmarillion se questo (come spero) verrà pubblicato.

Ho riassunto queste cose perché spero che La possano interessare e allo stesso tempo perché rivelano come l’invenzione linguistica sia strettamente legata alla crescita e alla costruzione delle leggende. E anche, possibilmente, per convincerLa che cercare in giro parole o nomi più o meno simili non è molto utile, nemmeno per trovare la fonte dei suoni e tanto meno per trovare una spiegazione al significato e al senso interni. I prestiti, quando capitano (non spesso) riguardano semplicemente i suoni che vengono poi integrati in una nuova costruzione; e solo in un caso il collegamento di Earendil con la sua fonte getta una luce sulle leggende o sul loro «significato» – e anche in questo caso la luce è scarsa. L’uso di éarendel nel simbolismo cristiano anglosassone come araldo della venuta di Cristo, vero sole, è completamente estraneo al mio racconto. La Caduta dell’uomo appartiene al passato ed è fuori scena; la Redenzione dell’uomo appartiene al lontano futuro. Ci troviamo in un’epoca in cui i saggi sanno che esiste l’Unico Dio, Eru, ma Egli non è avvicinabile se non dai, o attraverso i, Valar, benché egli non venga ricordato nelle preghiere (silenziose) di chi discende dai Numenoreani.

Qui la lettera procede con “una breve disquisizione sulla religione dei Numenoreani”, ma il testo edito in Letters non la include.

The Stone of Erech by Anke Eißmann

 

Illustrazione dell’Anello (di Tolkien stesso) in una delle bozze scartate per la dust jacket di The Fellowship of the Ring

 

Eärendil the Mariner by Jenny Dolfen

Trovo che si tratti di uno degli scritti più interessanti e densi di Tolkien, per tutte le ragioni che abbiamo già sottolineato, ma anche per la lucidità con la quale Tolkien sgombra il campo da chiavi interpretative erronee della propria opera, tra cui, specialmente in questi ultimi passaggi, la cosiddetta “lettura confessionale”.

Tolkien rigetta recisamente, tanto sul piano dell’ispirazione linguistica e onomastica (vedi gli esempi, affrontati nel post precedente, di Mōriyyā ed ʿĒn-Dōʾr), tanto sul piano filosofico/concettuale e narrativo, qualsiasi tentazione di “allegorizzazione” in senso cristiano delle proprie leggende: la “religione rivelata” del Cristianesimo è, in questo passato immaginario, ancora di là da venire, e qualunque tentativo di trasformare i personaggi tolkieniani in figurae Christi, Eärendil compreso, risulterebbe non pertinente e condurrebbe l’esegeta molto fuori strada. Questo Tolkien lo dice chiaramente, e non solo in questa occasione.

Faccio questa specifica perché noto che molto spesso si “impugna” quanto Tolkien afferma nella Lettera 142 a Padre Robert Murray, ovvero che Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica”, per sostenere letture allegoriche sulla base della dottrina cattolica. Ma a mio parere si tratta di due livelli del discorso ben diversi: un conto è affermare che un’opera letteraria, in quanto giocoforza prodotto dell’intelletto, della sensibilità, dei valori interiorizzati, della visione materiale, spirituale ed eventualmente religiosa del suo autore, risenta (inevitabilmente) di tutto questo. Il Signore degli Anelli CHIARAMENTE contiene istanze, suggestioni, tematiche (la Pietà, il Sacrificio, la Grazia, la Resurrezione, la Caduta e la Salvezza, il Libero Arbitrio, la Giustizia, la Fraternità, etc.) intrinsecamente legate al pensiero cattolico, su questo non ci sono dubbi. E, ripeto, non potrebbe essere altrimenti, soprattutto perché l’autore non ha motivo di “nascondere” tutto ciò.

Altro conto è, tuttavia, far seguire da ciò un’idea allegorica del testo e della sua costruzione, idea che non solo porrebbe ogni elemento della narrazione in una condizione di “eccentricità”, di non autenticità (e dunque alla lunga snaturerebbe l’intero impianto), ma farebbe crollare quel rapporto, cristallino e inalterato, tra Mondo Primario e Mondo Secondario, tra Creazione e Sub-creazione. In ultima analisi, la scelta di Tolkien è una scelta a vantaggio del ruolo autentico della LETTERATURA. Con le sue leggende non intendeva far Catechismo, non intendeva realizzare una sorta di “reinterpretazione fantasy” delle Scritture, come forse vorrebbero certe ricostruzioni avanzate da alcuni commentatori, a mio parere maldestramente (vedasi, ad esempio, The Gospel according to Tolkien di Ralph C. Wood; The Battle for Middle-earth: Tolkien’s Divine Design in ‘The Lord of the Rings’ di Fleming Rutledge; The Presence of Christ in The Lord of the Rings di Peter Kreeft).

Infatti la citazione della Lettera 142, che bisognerebbe riportare sempre per intero, ovvero nel suo contesto, prosegue:

“Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica; all’inizio non ne ero consapevole, lo sono diventato durante la correzione. Questo spiega perché non ho inserito, anzi ho tagliato, praticamente qualsiasi allusione a cose tipo la «religione», oppure culti o pratiche, nel mio mondo immaginario. Perché l’elemento religioso è assorbito nella storia e nel simbolismo. Tuttavia detto così suona molto grossolano e più presuntuoso di quanto non sia in realtà. Perché a dir la verità, io consciamente ho programmato molto poco; e dovrei essere sommamente grato per essere stato allevato (da quando avevo otto anni) in una fede che mi ha nutrito e mi ha insegnato tutto quel poco che so […]

L’affermazione secondo cui “l’elemento religioso è assorbito nella storia e nel simbolismo” è interessante. In effetti, lo stesso Tom Shippey ha osservato che alcuni “simboli” riconducibili all’immaginario e alla cultura cristiana sono effettivamente inseriti all’interno delle storie tolkieniane, pur con tutti i caveat che questa considerazione deve comportare: uno di questi è, per esempio, la data della distruzione dell’Anello e della sconfitta di Sauron, “convertita” al 25 marzo del nostro calendario, ovvero quella che, secondo la tradizione anglosassone, sarebbe la data della crocifissione di Cristo e dell’Annunciazione, nonché l’ultimo giorno della Creazione all’interno della Genesi.

Il fatto è che Tolkien, da persona estremamente colta ed incredibilmente equilibrata nell’infusione di una propria “impronta autoriale”, utilizza questi “simboli” con parsimonia, per veicolare determinati messaggi con una certa fermezza ma anche con la sua tipica discrezione.

Logicamente la disfatta del Male, seppur temporanea, non può che essere correlata tematicamente con la Redenzione secondo la visione cristiana cattolica. Nondimeno, questo non fa del Signore degli Anelli un’opera “simbolista”: non ci troviamo, leggendolo, in una forêt de symboles, come d’altro canto ci appaiono moltissime altre opere, basate su una visione della letteratura molto diversa da quella di Tolkien.

La sua concretezza, la sua “indipendenza” da letture dietrologiche, “sospettose” verso il livello letterale e da questo mai appagate, è a mio parere una delle più affascinanti e distintive lezioni che il Professore di Oxford ci ha impartito. D’altronde, come scrive nella Prefazione alla seconda edizione inglese del SdA (1965):

Riguardo al significato profondo, o al “messaggio”, nell’intenzione dell’autore non ne ha alcuno. Non è allegorico né fa riferimento all’attualità. […] detesto cordialmente l’allegoria in tutte le sue manifestazioni, e l’ho sempre detestata da quando sono diventato abbastanza vecchio e attento da scoprirne la presenza. Preferisco di gran lunga la storia, vera o finta che sia, con la sua svariata applicabilità al pensiero e all’esperienza dei lettori. Penso che molti confondano “applicabilità” con “allegoria”; l’una però risiede nella libertà del lettore, e l’altra nell’intenzionale imposizione dello scrittore.

Un autore non può naturalmente rimanere del tutto insensibile alla propria esperienza, ma i modi nei quali il seme di una storia usa il terreno dell’esperienza sono estremamente complessi, e i tentativi di definire il processo sono nel migliore dei casi supposizioni basate su indizi inadeguati e ambigui.

Quest’ultima considerazione ci ricorda da vicino quanto abbiamo detto sulla coniazione dei nomi: i “tentativi di definire il processo” saranno sempre “inadeguati e ambigui”, tanto quanto lo è “rompere qualcosa per vedere com’è fatta”, abbandonando così “il sentiero della saggezza”.

***

Con questo, cari amici, concludiamo questa sezione di Sôval Phârë, dedicata alla Lettera 297.

Dalla prossima volta cominceremo ad analizzare insieme alcuni estratti, sempre dalle Lettere, che avranno come argomento le traduzioni delle opere di Tolkien in altre lingue. Tema di cui il Professore (ovviamente!) si è occupato, sempre più man mano che ha dovuto fronteggiare le edizioni straniere delle sue opere, riscontrandovi criticità, dovendo difendere lo statuto dei propri nomi e l’integrità della propria costruzione narrativo-linguistica, e in generale ribadendo ciò che abbiamo finora trattato in questa rubrica, su più livelli.

Questi prossimi appuntamenti saranno per noi, inoltre, un’occasione per riflettere sul senso della traduzione come pratica, sul grande fascino che deriva dall’analizzare le differenze tra codici linguistici diversi, differenze dalle quali scaturisce grande ricchezza nel confronto tra culture e forme espressive differenti, ma anche grande difficoltà nella restituzione di un testo, con tutte le sue sfaccettature e tutti i suoi toni.

Sperando di incontrare sempre il vostro interesse, vi auguro come al solito buone letture.

Alla prossima!

-Rúmil

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