SÔVAL PHÂRË – (La“Lingua Comune”) ~ Rubrica sulla Traduzione in Tolkien - EPISODIO 13: la Lettera 297 e la coniazione dei nomi (Parte 3)

Cari amici, ben ritrovati al consueto appuntamento con Sôval Phârë, la rubrica dedicata alla traduzione nell’opera letteraria tolkieniana.

Stiamo attualmente approfondendo il processo di invenzione dei nomi da parte di Tolkien, attività che egli stesso definisce “frutto di notevoli riflessioni e fatiche” e che, ricordiamolo, è parte integrante del cuore del suo Legendarium, in quanto il nome per la poetica tolkieniana è latore di una storia, di un vissuto, e in fin dei conti di una verità profonda sul suo referente.

Il nome porta con sé una storia, non solo, banalmente, nella misura in cui è un “nome parlante”, ovvero un nome la cui etimologia rivela uno o più semi ben precisi che “descrivono” specifiche qualità (di un personaggio, di un luogo, di un concetto), ma anche in quanto la lingua stessa attraverso la quale quel nome è veicolato si fa tramite di un senso, simbolo di una cultura, di una storia, di un gusto estetico, di una prospettiva morale. Tutti questi fattori concorrono a rendere la nomenclatura di Tolkien qualcosa di fondamentale per la sua narrativa, motivo per cui si è reso necessario questo grande lavoro di cesello e di studio.

Pertanto, proseguiamo senza ulteriori indugi nella nostra rassegna di estratti dalla Lettera 297, in cui Tolkien aggiunge altri trivia sui nomi “Nazgul” e “Moria” (rispondendo evidentemente a bislacche inferenze del povero Mr. Rang), e compie una riflessione interessante sulla “storia esterna” dei suoi nomi:

Lettera 297 (abbozzi) a Mr. Rang, agosto 1967 (continuazione)

Nazgul. Non c’è motivo per cui una parola della Lingua Nera debba avere un legame con l’anglosassone. Significa «spettro dell’Anello», e l’elemento nazg è identico a nazg, «anello», nell’iscrizione sull’Unico Anello. Non conosco un composto in antico inglese gaelnaes, ma in ogni caso un inventore, impegnato nella costruzione di un linguaggio razionale, non ricorrerebbe mai al metodo di rovesciare l’ordine degli elementi in un termine di una lingua completamente slegata, che non ha alcun significato adatto!

Moria. Le Sue osservazioni mi fanno sospettare che Lei stia confondendo Moria con Mordor: quest’ultima era una terra desolata, la prima un magnifico complesso di scavi sotterranei. Quanto a Moria si dice che cosa significa, III 415, e che è un nome elfico (anzi, Sindarin): «Abisso Nero». Del resto contiene palesemente il √MOR, «scuro, nero», che si vede in Mordor, Morgoth, Morannon, Morgul, etc. (tecnicamente √MOR: *mori, «oscurità» = Quenya more, Sindarin mor; aggettivo *morna = Quenya morna, Sindarin morn, «scuro»). La ia, viene dal Sindarin ia, «vuoto, abisso» (√YAG: *yaga > Sindarin ia). Quanto alla «terra di Morīah» (notare l’accento): questa non c’entra niente. Non esiste alcun legame pensabile tra le miniere dei nani e la storia di Abramo. Io respingo recisamente un significato e un simbolismo di questo tipo. Non è nel mio modo di pensare; e (secondo me) Lei si è fatto condurre fuori strada da una somiglianza puramente fortuita, più evidente nell’ortografia che nel discorso, che non è giustificata dal significato che ho inteso dare alla mia storia.

Questo ci porta al problema della storia «esterna»: il modo in cui sono arrivato a scegliere determinate sequenze di suoni da usare come nomi, prima di trovare loro un posto all’interno del racconto. Penso, come ho detto, che questo non sia importante: la fatica che comporta spiegare quello che so e ricordare il procedimento, o anche la fatica che gli altri fanno a indovinare, sarebbe molto maggiore del valore del risultato. Le forme parlate non sono altro che suoni, e trasferite nella situazione linguistica della mia storia riceverebbero significato e senso in base a quella situazione e al tipo di storia raccontata. Sarebbe quindi del tutto deludente rifarsi alle fonti delle combinazioni di suoni per scoprire un significato più o meno nascosto. Ricordo parecchio del procedimento usato – l’influenza della memoria di nomi o parole che conoscevo già, o di echi della memoria linguistica, e alcuni inconsapevoli. Così i nomi dei nani nello Hobbit (e quelli aggiunti nel Signore degli Anelli) derivano dalle liste dei nomi di dvergar del Völuspá; ma questa non è una chiave utile per capire le leggende dei nani nel Signore degli Anelli. I «nani» delle mie leggende sono molto più simili ai nani delle leggende germaniche di quanto non lo siano gli elfi, ma sotto certi aspetti sono anche molto diversi da loro. Le leggende dei loro rapporti con gli elfi (e con gli uomini) nel Silmarillion e nel Signore degli Anelli, e delle guerre tra orchi e nani, non hanno equivalenti, che io sappia. Nella Völuspá, Eikinskjaldi reso con Oakenshield è un nome, non un soprannome; e l’uso del nome al posto del cognome e la leggenda della sua origine non si trovano in norvegese. Gandalfr è il nome di un nano nella Völuspá!

Rohan è un nome molto conosciuto, della Britannia, portato da un’antica, orgogliosa e potente famiglia. Io lo sapevo, e mi piaceva la sua forma; ma avevo già inventato (da molto tempo) le parole elfiche per cavallo, e vidi che Rohan poteva essere adattato alla situazione linguistica come nome tardo-Sindarin per la Marca (che prima si chiamava Calenardhon «la grande regione verde») dopo la sua occupazione da parte dei cavalieri. Niente nella storia della Britannia può gettare una luce sugli Eorlingas. A proposito, il finale -and (an), -end (en) nei nomi dei paesi senza dubbio a nomi (romanzi e altri) come Broceliand, ma è perfettamente in sintonia con la struttura dell’elfico primitivo (comune), altrimenti non sarebbe stata usata. L’elemento (n)dor, «terra», probabilmente deve qualcosa a nomi come Labrador (un nome che per quanto riguarda lo stile e la struttura potrebbe essere Sindarin). Ma non all’Endor delle Scritture. Questo è un caso alla rovescia, che dimostra come «investigare» senza conoscere i veri avvenimenti possa condurre fuori strada. Endor, in Sindarin Ennor, (vedi il plurale collettivo ennorath) fu inventato come equivalente elfico della Terra di Mezzo, combinando la già ideata en(ed), «mezzo» e (n)dor, «terra (massa)», per produrre un composto dall’apparenza antica: Quenya Endor, Sindarin Ennor. Quando l’ebbi inventato osservai naturalmente la casuale somiglianza con En-dor, ma la somiglianza è del tutto accidentale e il negromante consultato da Saul non ha alcun legame né alcun significato che riguardino Il Signore degli Anelli. Così è per Moria. In effetti Moria apparve per la prima volta nello Hobbit, cap. 1. Era, se ben ricordo, un’eco casuale di Soria Moria Castle in uno dei racconti scandinavi tradotti da Dasent. (Il racconto non mi interessava: l’ho del tutto dimenticato e da allora non l’ho più riguardato. Fu solo la fonte della sequenza di suoni «moria», che avrebbe potuto essere trovata o composta da altre parti.) Mi piaceva quella sequenza di suoni; si allitterava con «mines» [“miniere”] e si legava da sola all’elemento mor della mia costruzione linguistica. * [* Che era già a buon punto vent’anni prima che scrivessi Lo Hobbit. Anche le leggende del passato, anteriori all’epoca dello Hobbit e del Signore degli Anelli, erano in gran parte composte prima del 1935.]

Lord of the Nazgul by John Howe

 

The mines of Moria by Alan Lee

Questi passaggi risultano di enorme interesse, e costituiscono un efficace compendio di quanto accennavamo negli scorsi episodi, poiché illustrano con esempi concreti il processo creativo della nomenclatura, ed evidenziano i possibili “inciampi” in cui potrebbe incappare chi avesse la curiosità di “svelare il mistero”, e portare alla luce presunti significati nascosti.

Questo atteggiamento si attaglia molto più ai tentativi di decifrare un’“opera fantasy” generalista, per così dire, che non un’opera di Tolkien.

[In molte saghe di letteratura fantasy, infatti, i “nomi parlanti” sono spesso così plateali da risultare quasi dei soprannomi sotto mentite spoglie – d’altro canto i nomi in “lingue fantasy” sono il più delle volte dei grammelot privi di un significato ben preciso, o comunque di una sottostante concezione linguistica complessa. Il motivo è molto semplice: realizzare una costruzione simile dura fatica; una fatica sostanzialmente futile, se la lingua per quel mondo non è altro che un orpello, un elemento di ambientazione.]

Chi si cimentasse in quest’attività di “decrittazione” applicandola all’opera tolkieniana, basandosi magari su ragionamenti fallati (e confondendo, senza la dovuta attenzione alle “regole” di quel mondo, i codici linguistici in gioco), dimostrerebbe di non tener conto della complessità che abbiamo illustrato poc’anzi: il nome in Tolkien non è solo un’etichetta, un omen esplicito per il referente che lo porta, ma è accompagnato da un sostrato di significati, di implicazioni, di storie, che vanno anche al di là del singolo referente. Anzi a volte il nome è in diretta opposizione, o in una relazione dialettica, con l’omen racchiuso nel suo significato, come nel caso estremo di Túrin, il quale assume differenti nomi pressoché in ciascuna fase della sua vita, nel tentativo di sfuggire alla sorte avversa che lo accompagna:

  • Woodwose [“Selvaggio dei Boschi”]

  • Neithan l’Offeso

  • Garthol il Terribile Elmo

  • Agarwaen il Macchiato di Sangue

  • Mormegil [< Mormakil] la Spada Nera

  • Adanedhel Uomo-Elfo

  • Thurin il Segreto

  • Turambar Padrone del Destino

  • Dagnir Glaurunga “Uccisore di Glaurung” [post-mortem, iscrizione funeraria]

  • Naeramarth [Evilfated “dal fato crudele”, post-mortem]

Ciascuno di questi nomi, che gli vengono attribuiti o che lui stesso si autoattribuisce, simboleggia una temperie morale/spirituale della sua esistenza e del suo arco di trasformazione come personaggio. Ciascuno deriva da un’etimo che illustra le qualità che di volta in volta vengono associate al personaggio, e che informano del suo tentativo di sfuggire al proprio fato, illudendosi che questo perseguiti il proprio nome anziché la propria persona e la propria stirpe. Nei Figli di Húrin vi è uno specifico passo in cui questo viene esplicitato:

Ora, quando Túrin ebbe appreso da Finduilas quant’era accaduto, montò in collera e disse a Gwindor: “Io ti voglio molto bene perché mi hai salvato e per avermi tenuto al sicuro. Ma ecco che tu, amico, mi hai fatto del male rivelando il mio vero nome: così hai attirato su di me la cattiva sorte alla quale cercavo di sottrarmi”. Ma Gwindor replicò: “Il cattivo destino è dentro di te, non nel tuo nome”.

L’ironia beffarda della storia di Túrin farà sì che egli passi da essere Turambar, “padrone del destino”, a Naeramarth, “dal fato crudele” – nome che Tolkien associa al personaggio all’interno di un albero genealogico (nel manoscritto intitolato Kinship of the Half-elven, accluso a una lettera del 1964 a Eileen Elgar), e dunque presumibilmente attribuito post mortem dai posteri di Túrin, all’interno della tradizione della sua storia.

Kinship of the Half-elven, albero genealogico accluso al manoscritto della lettera del 5 marzo 1964 a Eileen Elgar (in parte pubblicata in Lettere, n° 255)

Vi sono poi casi in cui un singolo personaggio riceve nomi in lingue diverse (laddove la stragrande maggioranza dei nomi di Túrin era in Sindarin) a seconda della diversa cultura che li ha espressi, o del modo in cui lui viene recepito da quei popoli, caso per caso; come avviene con Gandalf:

Many are my names in many countries. Mithrandir [Sindarin] among the Elves, Tharkûn [Khuzdul] to the Dwarves; Olórin [Quenya] I was in my youth in the West that is forgotten, in the South Incánus [forma Quenya adattata dall’Haradrim Inkā-nūsh o Inkā-nūs], in the North Gandalf; to the East I go not.”

tratto da Le Due Torri, libro IV, cap. V “La Finestra che si affaccia a Occidente”

Abbiamo già discusso del fatto che Gandalf sia la “traduzione norrena” [adattata dal nome del dvergr Gandálfr dalla Vǫluspá, come Tolkien rivela anche nel presente brano della Lettera 297] di un nome sconosciuto (ovvero che Tolkien non inventò mai! Almeno a quanto sappiamo da ciò che è stato finora divulgato dei suoi scritti linguistici, in larga parte ancora inediti) in lingua Umanica del Nord (dunque un ramo eriadoriano/arnoriano della Lingua Comune, evidentemente imparentato con il Daliano); ma tutti gli altri nomi riportati in questa citazione sono a tutti gli effetti degli “originali”, in lingue della Terra di Mezzo.

***

Come ultima considerazione prima di salutarci mi preme sottolineare ancora una volta quanto dice Tolkien sulla “storia esterna” di questi nomi: essa non è importante quanto la loro “storia interna”! O meglio, non ha senso cercare “indizi” sul senso profondo dei nomi al di fuori della diegesi, come se l’autore avesse maldestramente confuso i due livelli (Mondo Primario e Mondo Secondario), a livello linguistico e culturale; al contrario ha molta più efficacia rintracciare quegli elementi, disseminati all’interno del racconto, che fanno luce sull’origine e il significato di quei nomi, aggiungendo anche qualche conoscenza ulteriore sulla storia del popolo che li ha espressi, sulla loro visione del mondo, etc.

Che “Rohan” fosse un noto nome anglosassone, o che “Moria” possa derivare da un’eco di un nome letto molti anni prima in un racconto scandinavo, è poco rilevante, e al massimo può costituire un aneddoto “di colore” per chi fosse curioso di studiare i procedimenti di “ri-attribuzione” a posteriori delle etimologie, di retroformazione, di “pseudo-derivazione”, oppure semplicemente constatare l’esistenza di incredibili coincidenze, “aiutate” dalla grande duttilità e perizia del coniatore nell’accordare il proprio gusto estetico alle regole morfologiche e fonologiche che andava via via perfezionando. Cercare di ripercorrere l’itinerario mentale dell’autore per arrivare a certi nomi non dovrebbe mai sostituirsi alla comprensione dell’intenzionalità dell’autore sull’effetto finale che quegli stessi nomi esercitano all’interno della storia. Con il rischio, peraltro, di cadere in false associazioni, come con i nomi biblici “Morīah” ed “Endor”, rispetto ai quali i “Moria” ed “Endor” del Legendarium non intrattengono alcun legame linguistico, né concettuale o di significato.

Infatti Moriah o Mōriyyā (ebraico מוריה) è il nome del monte, o forse della catena montuosa, sul quale si svolge l’episodio del sacrificio di Isacco, e significa in ebraico “ordine di Dio”.

Mentre Endor o ʿĒn-Dōʾr (ebraico עֵין־דֹּאר) è il nome del villaggio di Caanaan nel quale si recò in incognito Re Saul per ottenere consiglio per la guerra contro i Filistei da una Strega negromante, nota per avere il potere di evocare gli spiriti dei defunti. Il significato del nome è sconosciuto, anche se si ipotizza possa essere collegato a ein “sorgente” e dor “generazione”.

È evidente che nessuno di questi elementi abbia alcunché a che spartire con i rispettivi nomi quasi-omofoni che tanto bene conosciamo. Il simbolismo ad essi legati non può che condurre fuori strada i “ricercatori” di significati nascosti. E ci ricorda tra l’altro (memorandum sempre utile) che il mondo di Tolkien tenta di tenersi alla larga il più possibile da interpretazioni allegoriche, chiavi di lettura confessionali/religiose di alcun tipo, e in generale simbologie “facilone”: “non è il mio modo di pensare”, chiosa il Professore in maniera quasi piccata.

La “durezza” di Tolkien nel respingere simili ipotesi è per noi un insegnamento sul giusto atteggiamento da adottare: rigore nell’analisi delle caratteristiche del mondo narrativo, che è sì “adiacente” al nostro sotto molti punti di vista, anche linguistici (Tolkien potrebbe postulare che in fondo, essendo le lingue di Arda lingue di un mondo “preistorico”, ancorché si tratti di una “preistoria immaginaria”, sono semmai le “nostre” lingue a derivare dalle “sue”, e non il contrario!), ma che fa parte di una “credenza secondaria”, di un universo con una dignità propria.

Il costrutto narrativo-linguistico di Tolkien è indubbiamente debitore del Mondo Primario (come potrebbe non esserlo??), tuttavia va “preso sul serio” affinché possa assolvere la propria funzione, ovvero quella che una sub-creazione letteraria presuppone per i suoi lettori: riflettere sulla vita. Se cercassimo a tutti i costi di “risolvere il mistero”, di “sciogliere l’enigma”, come se tutto ciò non fosse altro che un rompicapo, non ci comporteremmo diversamente da un Saruman. E non saremmo più saggi di prima, al termine di questo periplo.

Alla prossima!

-Rúmil

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